Soggetto e ambientazione concorrono al grande successo ottenuto in Patria dal film di Choi Dong-hoon.

Seoul, 1933; la Corea è a tutti gli effetti una colonia giapponese e il movimento indipendentista muove le fila da Shangai alla Manciuria. Yem Sek-jin (Lee Jung-jae) viene incaricato di organizzare una squadra per uccidere un generale giapponese ed un traditore coreano arricchitosi in seguito alla colonizzazione. La giovane tiratrice Ahn Ok-yun (Gianna Jun), nominata leader della missione, dovrà però combattere con due ulteriori difficoltà: un passato di cui non era a conoscenza e la presenza di una spia tra i suoi connazionali, il quale ha assunto due killer professionisti (Ha Jeong-woo e Ho Dal-su) per eliminare la squadra prima che l’attentato abbia luogo.

 

Gianna Jun e Ha Jeong-woo avevano già avuto modo di lavorare assieme in The Berlin File (2013), il fortunato action thriller di Ryoo Seung-wan. Sennonché sul set di Assassination i ruoli si sono inveriti: Ha come controparte maschile mentre la Jun, da controparte femminile si è ritrovata, due anni dopo, protagonista del secondo miglior incasso del 2015 e vincitore alla 36esima edizione del Blue Dragon Film Awards per la categoria Miglior Film.

 

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Oltre ad un budget di 18 miliardi di won (fondamentale per garantire accurate scenografie, numerose sequenze d’azione ed un cast di tutto rispetto), la principale ragione del successo di Assassination in patria è da ricercare nel soggetto. Così come quasi tutti i film campioni al botteghino degli ultimi dieci anni, anche in questo caso si tratta di un periodo storico d’interesse nazionale che chiama in causa valori universali come amicizia e libertà e altri più locali come l’han: quel complesso sentimento tradizionalmente coreano caratterizzato da un senso di oppressione e desiderio di rivalsa condiviso soprattutto dalle classi sottomesse.

 

Si è trattato di una scelta di comodo l’aver fatto leva sul nazionalismo del popolo coreano? Può darsi, ma motivi di rancore nei confronti del Giappone, purtroppo, non sono loro mai mancati. L’occupazione nipponica, iniziata nel 1910 e terminata nel 1945 con la fine della seconda guerra mondiale, è solo l’ultimo e più cocente smacco per la penisola coreana, storicamente costretta a guardarsi dai giganti che la circondano territorialmente. Ad ogni modo, anche a distanza di decadi, non si può definire un argomento facile da trattare e non solo perché il rischio di contrapposizioni manichee è sempre dietro l’angolo (basti guardare il blockbuster del 2014 The Admiral: Roaring Currents). Vi sono infatti la consapevolezza di aver reso troppo facile ai giapponesi l’annessione della Corea e l’innegabile esistenza di chi all’epoca ne approfittò. Da qui la scelta del regista e co-sceneggiatore Choi Dong-hoon di dare maggiore rilievo agli antagonisti di origine coreana, ossia spie e traditori, pur senza trascurare la brutalità degli alti gradi dell’esercito del Sol Levante.