Il lato nascosto di Brian De Palma.

Se si va ad analizzare la sterminata filmografia di un regista del calibro di Brian De Palma, verrebbe da pensare che quel palcoscenico dorato che risponde al nome di Hollywood si configuri, in ultima analisi, come un’arma a doppio taglio. Chi non conosce infatti pellicole firmate dal regista italo-americano come Scarface, Gli intoccabili, Carlito’s Way e la più recente (e ben più mainstream) saga di Mission Impossible? Nessuno, verrebbe da rispondere. Eppure, in aggiunta a questi successi planetari — e da un punto di vista anche cronologicamente precedente — De Palma si contraddistinse nell’ondata cinematografica americana che va approssimativamente da fine anni Sessanta alla metà degli anni Ottanta per aver codificato un certo modo di far cinema che ancora oggi i critici denominano col suo nome: una situazione depalmiana, un incipit depalmiano, un piano-sequenza depalmiano.

 

Profondamente debitore di alcuni “giganti” che lo hanno preceduto (il nome tutelare che vedremo ritornare più e più volte, fino alla sfinimento, è ovviamente quello di Alfred Hitchcock, ma non bisogna dimenticare anche l’influenza di Billy Wilder), nonché sincero ammiratore di realtà cinematografiche più di nicchia e poco conosciute all’epoca all’interno della scena hollywoodiana (in primis il filone giallo italiano degli spaghetti thriller), Brian De Palma ebbe l’indubbio merito di amalgamare il cinema d’autore con quello molto più bistrattato che ancora oggi viene definito più o meno simpaticamente «di serie b», e che il Nostro dovette amare molto in gioventù. Chissà quante ore trascorse il giovane Brian all’interno di sudicie sale grindhouse, con gli occhi fissi su veri e proprio capolavori b-movie come Peeping Tom (1960) di Michael Powell che poi avrebbero contribuito in larghissima misura a determinarne lo stile personale e il successo planetario? E proprio di questo Brian De Palma meno noto al grande pubblico vogliamo trattare in questa sede.

 

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I due volti di Brian De Palma

 

Come riuscì un regista non più giovane e promettente (Obsession, prima pellicola di cui parleremo, uscì nelle sale quando il Nostro già navigava verso i quarant’anni) a farsi improvvisamente strada, quasi dal nulla, nel calderone hollywoodiano mischiando elementi “alti” con altri meno nobili? Certo il lavoro certosino e l’immenso estro dietro alla macchina da presa — che tuttavia portò numerosi critici a stigmatizzarne l’eccessivo manierismo e talvolta la pressoché totale assenza di verosimiglianza (critiche che in ambito nostrano colpirono in maniera similare il collega Dario Argento) — hanno contribuito immensamente alla realizzazione di quel cinema «à la De Palma» di cui sopra; ma c’è molto altro. Vi è, bisogna sottolinearlo senza remore, una serie di leitmotiv — per lo più presi in prestito dal “maestro” Hitchcock, e tuttavia sapientemente rielaborati — che pian piano diedero forma ad una Weltanschauung cinematografica inconfondibile, che negli anni e decenni a seguire avrebbero ispirato colleghi di tutto rispetto (un nome su tutti: David Cronenberg).

 

Di questi temi ricorrenti nel cinema di De Palma ci proponiamo di trattare in questo articolo: l’ossessione e la fobia, il doppelganger e il trasformismo, la realtà e la meta-realtà — che nelle pellicole del regista in esame in questa sede va ben oltre il mero ambito cinematografico: cosa è reale e cosa, invece, ne ha solo la parvenza? Questo potrebbe essere, a nostro parere, l’interrogativo che sottende l’intera opera depalmiana.

 

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Obsession (1976) è il film di Brian De Palma ambientato a Firenze

 

Fin da Complesso di colpa (Obsession), ambientato a Firenze, il regista si dimostrò interessato a un certo filone psicologico del genere thriller incentrato (come si può evincere già a partire dal titolo) sui temi dell’ossessione e del doppio. Qui, il dramma del protagonista (Cliff Robertson) scaturisce dal prematuro decesso della moglie e della figlioletta in seguito ad un riscatto da lui non pagato: ivi la perdita incolmabile e l’ossessione che ne deriva. Ma improvvisamente, dopo quello che si potrebbe definire un «letargo dei sentimenti» della durata di quindici anni, ecco che come un fantasma appare Sandra (una memorabile Geneviève Bujold), giovane italiana esteticamente identica alla moglie defunta. «Sogno o son desto?» — sembra chiedersi il protagonista; e noi spettatori con lui. La chiara ispirazione hitchcockiana (Vertigo — La donna che visse due volte) conduce, sequenza dopo sequenza, al colpo di scena finale, che ribalterà come un guanto tutti i piani di lettura del film. Già da Obsession si comprende come De Palma sia disposto a sacrificare la plausibilità delle sue trame a elementi più estrosi, dal colpo di scena conclusivo alla certosina messa in scena dei dettagli e degli “indizi”: il montaggio parallelo in cui Sandra rivive tutto il suo dramma nonché l’ultima scena al ralenti ne valgono da soli la visione.

 

Il 1976 fu per il Nostro un’annata cruciale, dal momento che oltre ad Obsession De Palma confezionò anche il ben più noto Carrie — Lo sguardo di Satana, probabilmente il suo primo grande successo di pubblico, tratto da un romanzo di Stephen King. Lasciando momentaneamente da parte le ossessioni hitchcockiane, il regista vira sull’horror più truculento e visionario, trattando il tema dei poteri ESP e rinverdendo le suggestioni orrorifiche lasciate assopite dopo Phantom of the Paradise — Il fantasma del palcoscenico (1974). Le scene di Carrie che rimarranno indelebili nella mente dello spettatore sono proprio quelle più estreme: l’apertura del film in cui la protagonista “scopre” le prime mestruazioni sotto la doccia nello spogliatoio femminile della sua scuola; l’incendio scatenato dalla ragazza durante il ballo di fine anno scolastico e la conseguente vendetta nei confronti delle compagne; e infine la sua implacabile rivalsa nei confronti della madre. Un accenno particolare va ad ogni modo fatto per quanto riguarda il finale nel finale, vero e proprio «marchio di fabbrica» del regista, che detterà scuola un po’ a tutto il genere thrilling nei decenni a seguire.

 

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Carrie -Lo sguardo di Satana (1976)

 

E comunque, sequenze sensazionali a parte, Carrie si configura, in ultima analisi, come un dramma della diversità: la ragazza “strana” Carrie, interpretata da una formidabile Sissy Spacek, conduce una vita negletta oscillando tra le frustrazioni a cui la sottopone la madre integralista cristiana e il terrore di interagire con le sue “mostruose” compagne di classe. In tutta l’assurdità della vicenda proprio Carrie sembra essere l’unico personaggio “normale” o “umano”, laddove tutti gli altri attori con cui la fanciulla condivide il palcoscenico della vita appaiono come mostri del tutto privi di qualsivoglia umanità.

 

A due anni di distanza De Palma confeziona The Fury (1978) che come il soprammenzionato Carrie analizza la tematica ancora poco trattata nell’ambito hollywoodiano dei poteri ESP (telepatia, chiaroveggenza, etc.), anticipando di qualche anno il più famoso Scanners di David Cronenberg, per trama, intuizioni narrative e… “autoimplosioni” (vedi scena conclusiva). Se in Carrie la sventurata protagonista si trovava a subire ripetute angherie all’interno di un ambiente domestico e scolastico, in The Fury i due ragazzi dotati di “superpoteri” subiscono il lavaggio del cervello da parte di una pericolosissima organizzazione segreta, interessata allo studio delle sperimentazioni psichiche sull’esempio di MK Ultra, Progetto Monarch, e di altre ricerche segrete svolte in U.S.A. come in U.R.S.S. durante la Guerra Fredda. Qui i confini già labili nei precedenti film depalmiani tra giusto e sbagliato e fra sanità mentale e pazzia diventano ancora più nebulosi. Robin soprattutto, in seguito ad una sorta di «Cura Ludovico» à la Arancia Meccanica, sarà soggetto ad una vera e propria trasformazione degna di Jekyll & Hyde, che lo condurrà sia all’omicidio che alla distruzione finale: torna dunque anche in questa pellicola il tema del doppio. Tematiche simili e ancora più spinte all’estremo sul versante psicologico verranno trattate, quasi quindici anni dopo, anche in Raising Cain — Doppia personalità (1992).

 

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Raising Cain — Doppia personalità (1992) è il film di Brian De Palma dove le tematiche psicologiche sono spinte all’estremo

 

Nel 1980 De Palma ritorna alla sua grande fonte di ispirazione Alfred Hitchcock realizzando Vestito per uccidere (Dressed to Kill), suo secondo grande successo commerciale dopo il precedente Carrie. Come già in Sisters (1973) il film di riferimento è Psycho: dal capolavoro del suo “maestro”, il Nostro attinge tutte le componenti cardine: disturbi di natura psicosessuale, assassini travestiti, una protagonista bionda che muore inaspettatamente a metà film… senza dimenticare ovviamente la celeberrima scena della doccia, che diventerà un vero e proprio leitmotiv del regista. Non solo Hitchcock, però: è innegabile che per Dressed to Kill Brian De Palma abbia preso spunto anche dalle pellicole di alcuni registi italiani del filone giallo anni Settanta, su tutti Dario Argento (L’uccello dalle piume di cristallo, Quattro mosche di velluto grigio) in particolar modo per quanto riguarda la psicosi scatenante la furia omicida del serial killer di turno. Ancora una volta la vicenda può risultare non del tutto plausibile, ma il lavoro di maestria del regista alla sceneggiatura e dietro la mpd emerge in maniera sempre più netta: De Palma sta perfezionando sempre di più il suo stile e la sua poetica, portando le sue ossessioni a picchi sempre più elevati.

 

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E’innegabile che per Dressed to Kill Brian De Palma abbia preso spunto anche dalle pellicole di alcuni registi italiani come Argento

 

Tra le sequenze indimenticabili è impossibile non citare il doppio inseguimento tra la protagonista e uno sconosciuto all’interno del museo (una citazione di Vertigo) — in cui le parti di cacciatore e preda si invertono continuamente — e l’omicidio nell’ascensore: pochi sanno che è ripreso dal misconosciuto Perché quelle strane gocce di sangue sul corpo di Jennifer? di Giuliano Carnimeo (1972), pellicola che tra le altre cose può vantare una Edwige Fenech all’apice della sua avvenenza. La scena thrilling sul metrò invece ricorda da molto vicino la sequenza analoga di Quattro mosche di velluto grigio di Dario Argento (1971), ma anche quella de L’ultimo treno della notte di Aldo Lado (1975). Last but not least, è da menzionare l’omaggio a Rear Window — La finestra sul cortile nella sequenza dello spogliarello di Nancy Allen all’interno dello studio del dottor Elliott: scelta stilistica che verrà ripresa anche nel successivo Body Double — Omicidio a luci rosse.

 

Altri espedienti tipici del regista, perfettamente riconoscibili in Vestito per uccidere sono: il ruolo della componente onirica (il film si apre e si chiude “circolarmente” con due sogni), la protagonista caratterizzata da sentimenti “umani” in mezzo a chi pare aver perso completamente ogni barlume di umanità (chi più chi meno: il marito, l’amico occasionale, il figlio, la prostituta, lo psichiatra, il commissario) e, ancora una volta, il finto finale nel finale (così come precedentemente in Carrie). 

 

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Blow Out (1981)

 

L’anno seguente, per quello che a parere dello scrivente resterà il suo capolavoro massimo, Blow Out (1981), il Nostro si ispira sin dal titolo a Blow-Up (1966), opera essenziale della filmografia di Michelangelo Antonioni, vera e propria riflessione meta-cinematografica sul labile sipario che separa realtà e finzione. Rispetto alla pellicola del regista ferrarese, ambientata nella Swingin’ London fashion e spensierata degli anni Sessanta, De Palma circoscrive la sua vicenda ad una New York torbida — paragonabile per molti versi a quella del precedente Taxi Driver di Martin Scorsese (1976) e del successivo Lo squartatore di New York (Lucio Fulci, 1982) — in cui dietro l’apparenza patinata si cela tutto lo squallore della moderna vita metropolitana: prostituzione, ricatti, assassini e complotti politici.

 

Il nome tutelare è sempre Hitchcock (North by Northwest, 1959) ma De Palma qui – come mai nella sua filmografia – dimostra grande abilità nel distaccarsi dai classici pur senza nascondere le influenze. Blow Out si presenta come un thriller cospirativo di grande tensione, in cui ogni mossa e sequenza è calcolata perfettamente, come mai si era visto prima nella filmografia depalmiana. La nota passione del regista per il meta-cinema e le soluzioni ardite lo conduce ad iniziare la pellicola con una sequenza per così dire estranea alla trama vera e propria, una specie di film nel film che vede il protagonista John Travolta e il suo collega, regista di b movie, filmare un horror di serie Z tra ragazzine sotto la doccia (vera e propria ossessione del regista), amplessi in camera da letto, angherie di alcune ragazzine ad una coetanea (come in Carrie) e agguati improvvisi quasi da slasher movie da parte del serial killer di turno. Nel momento in cui lo spettatore comprende che non si tratta del plot vero e proprio ma di un film nel film tira un sospiro di sollievo, ma da lì a poco il protagonista si troverà ad essere testimone del tutto casuale di un incubo ben peggiore, ambientato nella grigia realtà newyorkese.

 

Il manierismo di De Palma si erge in Blow Out a livelli elevatissimi: la scena in cui Travolta registra prima le voci della coppia, poi i versi del rospo e del gufo ed infine l’incidente è un capolavoro di dettagli e inquadrature. Ma di sequenze notevoli ce ne sono molte: il procedimento con cui Jack Terry monta in modo certosino le fotografie del magazine sull’audio da lui registrato al fine di dimostrare ai mass-media la validità della sua teoria; il flashback del protagonista; il sicario che uccide tutte le ragazze bionde con i capelli ricci perché tutte, nessuna esclusa, potrebbero essere la ragazza in grado di screditare con la sua testimonianza la verità ufficiale dell’incidente — fino al botto della drammatica scena conclusiva, in cui l’euforia per i festeggiamenti del 4 luglio e un pesantissimo velo di tensione si intrecciano sapientemente.

 

Il finale nel finale è ancora una volta un colpo di genio, come nella migliore tradizione depalmiana: l’urlo disperato della Allen mentre si abbatte su di lei la furia del serial killer verrà poi utilizzato dal protagonista come effetto per il film di infima fattura a cui l’amico regista stava lavorando nella prima sequenza del film: anche qui dunque il Nostro conclude la pellicola in modo “circolare”, richiamando alla mente dello spettatore la sequenza di apertura. De Palma confeziona una pellicola intrisa di tensione e complotti, ma ancora una volta invita il pubblico a non prenderlo troppo sul serio.

 

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Omicidio a luci rosse (1984)

 

È con Body Double (letteralmente «controfigura», in particolare quella adoperata nelle scene di nudo [1]) — Omicidio a luci rosse che il Nostro arriva allo zenit personale di imitazione hitchcockiana, derivando quasi completamente la trama dall’incrocio di due dei più noti lavori del Maestro: Rear Window (La finestra sul cortile, 1954) e Vertigo (La donna che visse due volte, 1958). Dal primo, De Palma riprende la situazione in cui Jake, il protagonista del film, un attore di b-movie horror appena scaricato dal regista di turno, si ritrova sera dopo sera: ospite nell’appartamento lasciatogli temporaneamente da un amico, si delizia quotidianamente spiando dalla finestra con un telescopio una procace vicina che è solita esibirsi, sempre alla stessa ora, in un sensuale spogliarello. Ma ecco che improvvisamente l’eccitazione — del protagonista come dello spettatore — si tramuta nel terrore più agghiacciante, quando una sera Jake assiste casualmente all’ingresso nell’appartamento della giovane donna da parte di un misterioso e agghiacciante «Indiano» [2] dalla faccia butterata —un’intrusione inaspettata che si concluderà con l’omicidio della sventurata.

 

Da Vertigo De Palma riprende invece il tema del doppio grazie a un espediente narrativo già utilizzato nel precedente Complesso di colpa: dopo aver assistito alla home invasion culminata nell’omicidio della procace vicina di cui sopra, il protagonista farà involontariamente la conoscenza di una pornostar, in tutto e per tutto simile a colei che costituiva fino a poche sere prima il suo oggetto del desiderio. La componente erotico-sessuale è notevole ma sempre funzionale allo sviluppo della complessa trama, mai troppo ingombrante o volgare. Ritorna anche un altro tema “caldo” di De Palma, quello della fobia: laddove in Vertigo si trattava ovviamente di vertigini, in Body Double il protagonista soffre di claustrofobia — memorabile la scena in cui, dopo aver rincorso a lungo l’«Indiano», Jake si ritrova immobilizzato dalla paura in un tunnel, mentre il losco figuro si ferma di colpo e ritorna indietro verso di lui a passi lenti e con fare minaccioso. Così come nella scena del museo di Dressed to Kill (e, più in generale, in Carrie), ancora una volta il cacciatore e la preda invertono repentinamente i propri ruoli.

 

Vertigo è sempre stato una forte fonte di ispirazione per Brian De Palma

 

Tantissimo Hitchcock dunque, ma non solo. Le origini italiche di De Palma si notano eccome, in Body Double come in nessun’altra delle sue pellicole. L’idea di un thriller ambientato in un ambiente così ricco e “sbarluccicante” come la Hollywood degli anni Ottanta, con tanto di propensioni omicide giustificate da motivi ereditari, ricorda molti gialli nostrani degli anni Settanta, in particolar modo il seminale Sei donne per l’assassino di Mario Bava (1964) che detterà legge a tutti i suoi epigoni successivi. La celeberrima scena dell’omicidio con il trapano si configura invece come una citazione di Sette orchidee macchiate di rosso di Umberto Lenzi (1975). Lasciando i lidi nostrani, per l’ossessione voyeuristica del protagonista De Palma non può che essersi ispirato a un altro classico del genere thrilling, il già menzionato Peeping Tom di Michael Powell (1960), pietra miliare del filone thriller psicologico.

 

E d’altronde, De Palma stesso ammise di aver sviluppato una certa ossessione voyeuristica durante l’infanzia, quando spiava le scappatelle del padre per conto della madre: come ebbe a dichiarare in un’intervista a Repubblica del 2015:

 

«se ti nascondi dietro gli alberi a osservare gli altri, sviluppi un approccio voyeristico alla vita».

 

Anche Body Double, così come il precedente Blow Out, inizia con una falsa partenza: lo spettatore, prima di immergersi nella vicenda vera e propria, assiste alla scena di un vampiro che rimane immobilizzato in una bara a causa della sua claustrofobia. Si tratta di Jake, il protagonista, impegnato nelle riprese di Vampire’s Kiss, un b-movie horror a cui sta lavorando; e persino nella sequenza conclusiva della pellicola Brian De Palma ci mostra un ciak del film in questione (chiusura “circolare”). Si tratta anche in questo caso di vero e proprio meta-cinema, di un film nel film.

 

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Brian De Palma ammise di aver sviluppato una certa ossessione voyeuristica durante l’infanzia

 

E d’altronde mai come in Body Double nella vastissima filmografia del regista realtà e finzione cinematografica si confondono, al punto addirittura che Jake, nella vicenda vera e propria, viene “scelto” per la parte del testimone, come se la sua vita stessa fosse un film. Altri temi tanto cari alla poetica depalmiana – e prima ancora hitchcockiana – che vengono affrontati in Body Double sono: il doppio e le dissociazioni psicologiche (Sisters, Obsession), il protagonista fragile e vittima delle proprie paure e delle angherie altrui che si trova catapultato in una situazione più grande di lui (Carrie), il confine sottile tra l’intuizione e la follia (Blow Out), una cospirazione che il protagonista scena dopo scena dovrà dipanare insieme allo spettatore (idem), l’erotismo e l’ambiguità del corpo femminile (Dressed to kill). 

Tutte tematiche che, come speriamo di aver sufficientemente dimostrato, costituiscono il vero canovaccio profondo del cinema à la De Palma.

 

Note:

1- Si noti come il titolo originale, proponendo una riflessione sia sull’elemento metacinematografico del film sia sul tema del doppio, a De Palma così caro, sia sul corpo in quanto simulacro erotico/pornografico/sessuale, risulti molto più incisivo del titolo italiano Omicidio a luci rosse.

2- In realtà, più correttamente, un nativo americano.

 

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