Vivo, morto e risorto: Elvis, attraverso la sua icona, la sua grandezza, la sua bellezza e i suoi sottovalutati film da protagonista.

Cosa dovrebbe fare il cinema se non alimentare la nostra immaginazione, facendoci credere che le cose possano andare (o siano andate) davvero in un altro modo? Quante volte abbiamo creduto che gli alieni venuti da una galassia (lontana) lontana sappiano comunicare con noi tramite musica e colori; quante volte abbiamo fantasticato di chiedere la mano della nostra amata la notte di capodanno, dopo un discorso da squagliarsi; quante volte abbiamo finto, vestendo una giacca nera e un papillon, di essere un agente segreto in missione per Sua Maestà.

 

È il cinema, del resto, e il cinema, oltre ad allargare l’orizzonte conosciuto della mente è anche il mezzo che, più di tutti, allevia i sintomi della morte. Lo diceva Terry Gilliam nel suo Parnassus, lo scriveva Joe R. Lansdale nel suo folle ciclo del Drive-In: nulla è per sempre, nemmeno la morte, quando c’è il cinema. E la settima arte, più di quanto si potesse pensare, ha avuto un ruolo cruciale nella vita, nelle opere, nella formazione di colui che è il simbolo del ‘900, Il Re assoluto, totale e totalitario della storia umana e musicale: Elvis Aaron Presley, venuto da Tupelo ottantadue primavere scorse, morto a Memphis quarant’anni fa e risorto, ovunque, il giorno successivo.

 

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Elvis Presley è uno dei più grandi simboli del 900

 

Senza concentrarsi ancora una volta sulla sua bio, senza sciorinare i capolavori, senza elencare le infinite apparizioni annunciate e avvistate successivamente alla sua discussa sparizione (alcune incongruenze e avvenimenti sono palesi, al netto delle varie teorie cospiratorie), senza sottolineare la sua cruciale importanza nell’evoluzione linguistica e culturale partita dal Tennessee e assorbita dal mondo intero, vogliamo ricordare Il Re tramite le sue esperienze cinematografiche, sempre troppo spesso poste in secondo piano rispetto ai suoi brani. Eppure, molto spesso, quei film – ai quali sono inspirati i musicarelli nostrani – sono stati dei veri e propri gioiellini, semplici nel loro modo di essere, senza pretese, solo con la voglia di regalare al pubblico un Elvis quanto mai vicino a noi, nei panni qualunque di un militare, di un galeotto dal cuore d’oro, di un inguaribile e sentimentale bulletto, di un pilota da corsa un po’ sfigato o, perché no, di un camionista dalla voce inimitabile.

 

Un po’ come Sinatra o i Beatles (anche loro protagonisti di teorie cospiratorie con la morte di Paul McCartney), negli anni ’60 la fama veniva sfruttata a 360° gradi, e anche Elvis, dal 1956, cominciò a prendere parte come attore in diverse pellicole, molte delle quali in supporto ai singoli o agli album pubblicati e trasmessi a ripetizione dalle stazioni radiofoniche, ascoltate dai teen-ager quasi di nascosto, per paura che i bigotti genitori potessero interrompere quella musica Rock e ribelle, rea di influenzare, con capelli troppo lunghi e messaggi, all’epoca, provocatori, le vite della prole, destinata ad un esistenza di preghiera e lavoro.

 

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Elvis diventò attore nel 1956

 

Il primo film di una lunga, lunga lista, è – italianizzando il titolo – Fratelli Rivali, prodotta dalla 20th Century Fox con un Elvis nei panni di un soldato della Guerra di Secessione, al centro di una disputa tra fratelli. Nella soundtrack, o meglio dire vera e propria mission del film, la straziante Love Me Tender. Girovagando nella sua filmografia, alternata ai suoi album e agli eventi storici che hanno caratterizzato gli Stati Uniti d’America da metà anni ’50 agli anni ’70 (e sono tanti: Guerre Fredde, Vietnam, presidenti assassinati, uomini sulla luna), possiamo citare anche Il Delinquente del rock and roll (Jailhouse Rock), diretto da Richard Thorpe sotto il leone delle MGM, importante per due motivi agli antipodi e, nella sua drammaticità, beffardi. Il primo, la morte durante le riprese della co-protagonista Judy Tyler, che spinse Elvis a non voler mai visionare la pellicola, anche se, e questo è il secondo motivo, il film contiene un primo prototipo dell’attuale videoclip musicale, nel quale Elvis, in una scena cult, balla e canta la fantastica Jailhouse Rock, insieme ad altri ballerini, vestiti come lui: giacca nera e una storica t-shirt a righe orizzontali. Inutile dire che nel 1957, anno del film, quelle t-shirt divennero un vero e proprio must.

 

 

Altro titolo, forse il più citato e ricordato, anche per la sua location lussureggiante in grado di stuzzicare la fantasia degli americani, che si affacciavano nel mondo del turismo, è Blue Hawaii. Il film è anche una sorta di benvenuto all’Isola nelle stelle della bandiera nazionale, dato che la pellicola, uscita nel ’61, segue di soli tre anni l’ammissione delle Hawaii come 50° stato degli States. Nel film, un maturo Elvis, in camicia hawaiiana, intonando, tra le tante, Can’t Help Falling in Love, torna ad Honolulu dal servizio militare, intraprendendo il ruolo di guida turistica. Un paio di curiosità: nel film recita la Signora in Giallo Angela Lansbury e, in diverse scene, Il Re indossa, personalmente scelto, il mitologico Hamilton Ventura dalla forma a scudo, primo orologio della storia alimentato a batteria.

 

Impossibile non nominare il frizzante e tamburellante Viva Las Vegas, datato ’64 e diretto da George Sidney, in cui Elvis, oltre sorseggiare il medesimo brano, divise il set con la bionda Ann Margret che, come Icona vuole, divenne una delle sue tante fidanzate. Film ”minore” ma alquanto divertente, arriva nel 1967, con Elvis in Miliardario… Ma Bagnino (Clambake), nel doppio ruolo di un petroliere e un istruttore di sci nautico. Nella pellicola, guidava la Chevrolet Corvette Stingray Racer di color rosso fiammante. Rossa come la BMW 507, acquistata in Germania durante il servizio militare e ridipinta dal bianco perché, per suo imbarazzo, le accanite fans erano solite lasciargli dei messaggi (o dei baci) scritti con il rossetto sullo slanciato cofano.

 

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Elvis in Blue Hawaii

 

Ultimo film di Elvis, mai arrivato in Italia, è stato Change of Habit nel 1969, facendo ”discutere” per la storia incentrata sull’amore tra un medico, appunto Elvis, e una suora missionaria. Dopo il 1969 il resto è, tristemente, distruttivamente, storia: Elvis è stanco. La sua mamma non c’è più (unico vero amore della sua vita), il fisico non regge, i sogni sono diventati bruscamente realtà, la pressione, per un ragazzo che da piccolo sognava di diventare ”solo” una stella e non una costellazione, erano troppe. Elvis, come il mondo ai suoi piedi, è (forse) umano, e gli umani, quelli empatici, quelli sognatori, quelli poetici, non sono fatti per la felicità. Ecco, pensiamo, perché la sua ultima canzone, appoggiata su un malinconico pianoforte, in una notte di mezza estate, fu Blue Eyes Cryning in the Rain, prima di chiudere gli occhi appena, dimenticando tutto e tutti.

 

 

Romanticamente, citando poi un film che non c’entra nulla, arrivato decenni dopo, pensiamo che l’essenza di quella notte sia stata, forse inconsciamente, parafrasata durante una sequenza di Men in Black, sulle note di Promised Land, quando Tommy Lee Jones, rivolgendosi a Will Smith dice:

 

“No, Elvis is not dead, he just went home”.

 

E, dunque, ce lo immaginiamo di ritorno su qualche pianeta disperso, ad asciugar da lontano le lacrime che ancora oggi, il 16 agosto, bagnano Memphis. O più semplicemente, ce lo immaginiamo tornare nella sua modesta casa di Tupelo, Mississippi, seduto sul dondolo sotto la veranda, con la chitarra comprata per quattro soldi da papà Vernon e mamma Love. Il Re è morto, Il Re è risorto.

 

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