Abbiamo intervistato Fabio Mollo, il regista di uno dei film più interessanti e coinvolgenti dell’anno.
Paolo sognava di fare l’architetto, ma lavora in un enorme centro commerciale, dove nelle pause fuma sotto la gigantografia della classica e stereotipata famiglia felice, quella che teme di non aver mai con il suo compagno. Mia è una giovane donna incinta che fa la cantante rock, porta avanti la sua gravidanza, con sconsideratezza ed incoscienza; è una donna chiassosa che ‘urla’ per non sentire il rumore della vita che cresce dentro di sé. Due anime in pena e in fuga, che si ritrovano in un viaggio lungo l’Italia alla ricerca di se stessi e del futuro. La seconda opera di Fabio Mollo vede come protagonisti un camaleontico Luca Marinelli e un’esplosiva Isabella Ragonese, impegnati in un road movie metafora struggente di un futuro tanto insidioso quanto possibile.
Sessualità, genitorialità, il Meridione, ciò che è naturale e ciò che è contro natura. Sono molteplici i temi che affronti, con un brillante e innamorato spirito di osservazione privo di conformismi e banali pregiudizi, che rifugge da facili etichette.
Ho provato a raccontare questi temi attuali e centrali nel dibattito sociale, narrandoli dal punto di vista della mia generazione. Dagli occhi dei trentenni, che fanno i conti e provano a ragionare sul futuro.
Con un protagonista omossessuale il rischio dell’etichetta di film gay era dietro l’angolo, ma questo era solo uno dei temi funzionali al mio racconto. Così come la genitorialità, altro tema delicato e stringente. Ho cercato di veicolare queste tematiche attraverso l’amore, amore che ci può essere con una persona appena conosciuta. Amore verso un figlio che non è necessariamente sangue del tuo sangue ma che scegli di amare e accudire. Un amore universale e sconfinato, senza barriere ed etichette appunto.
Mi piace pensare che Il Padre d’Italia sia un film sul futuro, che parte dai temi suddetti e li affronta in maniera sincera, senza pregiudizi, con rispetto.
Futuro nebuloso e instabile, come il senso di precarietà che pervade il film. Precarietà sul lavoro, nei rapporti sociali, nell’avvenire. Precarietà che viaggia insieme ai protagonisti nel furgone scassato utilizzato per attraversare il Paese.
Sì assolutamente, la precarietà è ormai diventata parte del nostro DNA, non ne facciamo più una scoperta, anche se forse i nostri politici non se ne sono accorti.
La precarietà sociale qui diventa anche precarietà emotiva. Precarietà emotiva comune al mondo affettivo di Paolo e Mia, l’uno silenzioso e anonimo, l’altra caotica e rumorosa.
Per me era importante dare ai temi una dimensione sempre umana, intima ed emozionale.
Il mio non vuole essere un film d’inchiesta o di denuncia. Sì attuale ma imperniato sul racconto intimo di due esseri umani.
La tua è una celebrazione dell’esistenza come possibilità e presenza. Dolore e precarietà possono essere spazzati via da un piccolo miracolo, che è dietro l’angolo e può capitare a chiunque. Il tuo è un messaggio di speranza?
Speranza ma soprattutto coraggio. Coraggio che porta ad unirsi e ad aprirsi all’altro anche se si è diversi, o ‘contro natura’. Coraggio di chi supera le difficoltà, di chi travalica le barriere e riesce a vivere la propria vita lasciandosi trascinare dagli eventi ma soprattutto dalla propria voglia di costruire nonostante le avversità. Coraggio nel futuro, piuttosto che nostalgia del futuro, sensazione amara e comune alla nostra generazione.
Per una volta la Calabria ha anticipato i tempi. La fuga dei cervelli dall’Italia verso l’estero è un revival di quello che accade da anni nel meridione: chi può va via per assicurarsi un futuro migliore, e ai padri non è più concesso veder crescere i figli sotto i loro occhi. Nel tuo film ribalti questa prospettiva. La Calabria, da triste punto di partenza, diventa porto d’approdo.
Esatto, io penso che la Calabria sia una terra meravigliosa e affascinante proprio perché ricca di contrasti e di contraddizioni. Paolo e Mia sono due personaggi l’uno l’antitesi dell’altro in tutto e per tutto quindi per me era giusto che il loro viaggio culminasse proprio in Calabria, che da terra dell’impossibile, si trasforma nel luogo magico dove tutto diventa possibile.
E’ quello che rende affascinante la storia in quel momento, sfatando i miti, giocando di contrasto anche qui. La parte più intima ed emotiva, dove anche ci si lascia trasportare di più da questa storia d’amore sui generis.
Abbiamo girato il film in ordine cronologico, ripercorrendo le tappe che fanno gli attori lungo un percorso durato un anno. Quando siamo arrivati in Calabria era il momento dove le finanze iniziavano a scarseggiare, ma l’affiatamento della troupe e degli attori era cresciuto a dismisura. Un’ulteriore contraddizione di cui il film risente in positivo.
La fortuna del film risiede anche e forse nella studiata e ritmica alternanza di scene d’ilarità e di leggerezza a momenti struggenti e a silenzi lunghi e assordanti, narrati da una potente colonna sonora. Gli stessi protagonisti si raccontano attraverso i brani da loro interpretati. Quanta importanza ha avuto per te la scelta dei brani?
Molta. Il mio obiettivo era realizzare un film che riusciva ad equilibrare parti drammatiche con parti più leggere, in una sorta di metafora della vita, per sua natura composta da questi due elementi. Per noi era una sfida tenerli all’interno delle stesse scene, delle stesse sequenze del film, però insomma, ci siamo riusciti.
In questo racconto di vita, la musica poi ha giocato un ruolo fondamentale, non limitandosi al ruolo collaterale di accompagnamento emotivo.
Le due canzoni principali sulle quali abbiamo basato i personaggi sono il Mare d’inverno di Loredana Bertè e There is a light that never goes out degli Smith (dall’album The Queen is Dead ndr).
La prima descrive il carattere di Paolo, la sua impossibilità di comunicare con il mondo, la nostalgia di una felicità. L’altra per raccontare il personaggio di Mia, il suo sentirsi esclusa, una rifiutata senza famiglia, che preferisce vagare tutta la notte in una macchina piuttosto che tornare a casa.
Questi due brani son stati scelti non solo perché belli e nei nostri gusti musicali, ma in quanto parte integrante del racconto dei personaggi.
Usciti dalla sala il cuore è rigonfio di tenerezza. Nel viso di Paolo, quando viene accarezzato dalla suora dell’orfanotrofio, o quando sconfigge la paura di saper nuotare. E negli occhi di Mia, quando nuda con il pancione si accovaccia tra le braccia di un uomo che non ha mai avuto. L’amore vince sempre, anche quello non convenzionale, fuori dagli schemi. Rompe i pregiudizi, accorcia le distanze, avvicina due cuori grigi e malconci che appaiono pregiudicati per sempre.
Assolutamente sì. L’abbiamo vissuta come una grande storia d’amore a tutto tondo, un amore che vince quando supera etichette e barriere. L’amore tra i due protagonisti ma anche quello tra Paolo e il bambino che Mia porta in grembo. Sono contento che sia visto e interpretato come una storia romantica: si tratta proprio di una grande ed universale storia d’amore.
Nella realtà nostrana fanno la voce grossa cine-panettoni e commedie banali, che riempiono il botteghino ma non il pensiero dello spettatore. Il tuo lavoro può essere ricondotto a quel genere di film ‘impegnato’ tanto caro ad un mostro sacro come Elio Petri? Magari con un Luca Marinelli novello Volontè.
Magari! (Risata di gusto, ndr).
Più che fare un film impegnato, io vivo il mio lavoro di regista con impegno. Non faccio film impegnati ma vivo la mia professione con dedizione e con rispetto. Rispetto del pubblico, della società, rispetto delle storie che racconto.
I miei film nascono da un’esigenza forte di voler raccontare qualcosa che per me in quel momento è importante che sia raccontato, non soltanto per soddisfare o intrattenere il pubblico. Io vivo io il mio lavoro anche in un’urgenza, un’essenzialità, un’importanza che parli al pubblico e racconti qualcosa che soddisfi la mia voglia di raccontare.
Quanto è difficile fare il regista in Italia? Per un giovane regista quanto è difficile emergere?
Il lavoro del cinema è sempre stato precario, un lavoro che richiede non solo una grandissima passione ma anche un’enorme professionalità.
Non dismetti mai le vesti di regista, il lavoro ti accompagna quotidianamente, ti occupa totalmente, t’immedesimi con questo, sempre alla ricerca di stimoli e di storie.
E’ un lavoro duro, dove ogni giorno devi dimostrare qualcosa, perché i risultati sono effimeri e occorre ripartire punto e a capo.
Io tra l’altro in Italia risulto un giovane regista, ma al di là della frontiera, all’estero, questo termine non viene più utilizzato. Questo però è un problema che in realtà riguarda tutta la nostra generazione, siamo considerati giovani fino a 40 anni.
Tra le tue altre esperienze, mi hanno particolarmente colpito la collaborazione con Sorrentino sul set di The Young Pope e la riapertura del Cinema Teatro Gentile a Reggio Calabria, destinato forse a morire senza il tuo prodigioso intervento.
Io sono stato molto fortunato, ma ho lavorato tanto e rispetto ai risultati che ho ottenuto mi reputo una persona fortunata. Ho fatto tanta gavetta, ho fatto l’assistente per molti anni e ciò mi ha portato anche a conoscere bene il set e le sue particolari dinamiche. Però, come detto, i risultati sono sempre in discussione ed è bello continuare ad avere stimoli per andare sempre avanti.
Allo stesso tempo a me piace lavorare su progetti che restituiscano qualcosa anche agli altri. Da qui la riapertura del Cinema Teatro e, sempre a Reggio, il Laboratorio di Filmmaking per giovani registi, completamente gratuito, giunto ormai alla sesta edizione. È un modo per condividere un rapporto con gli altri e dare a tutti una speranza, un mio personale tentativo di restituire qualcosa.
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