La tormentata personalità di Klaus Kinski emerge dal rapporto controverso con il regista tedesco Werner Herzog.

«Se lasci il film ti ritroverai con otto pallottole in testa prima di raggiungere la successiva ansa del fiume».

Kinski continuò a tenere i palmi appoggiati alla valigia ponderando la prossima mossa; che fare? La stazione di polizia più vicina era a ben cinquecento chilometri! Non era uno scherzo quello di Herzog, come l’aveva capito? Facile, il tono calmo con cui Werner aveva scandito le parole “pallottole” e “testa”: mai sottovalutare le acque chete, e questo l’avrebbe imparato nel corso di cinque ed estenuanti collaborazioni con quell’uomo così intriso di simulata civiltà.

 

Si sentiva come un Gesù deriso, incompreso, esiliato per più di 40 giorni nella giungla peruviana a girare quel film, Aguirre – furore di Dio, quarto lungometraggio del regista tedesco. Lui era un attore di teatro, un cavallo di razza, puro, indomabile… certo, incline all’isteria patologica, ma è un piccolo prezzo da pagare per avere Klaus Kinski nel proprio film. Cosa cerchiamo di fare qui? Dell’arte? Del teatro? No no, Werner odia il teatro e lui lo sa perché si conoscono da lustri.

 

In quella piccola pensione quanto deve essersi spaventato il giovane Herzog, ospite con la sua povera famiglia, quando Klaus si chiuse per ben 48 ore, in uno dei suoi frequenti attacchi di isteria vera, riducendo i servizi igienici a coriandoli da lanciare per carnevale. Forse non si spaventava neanche, perplesso lo era di sicuro, forse è questa la giusta definizione. E intanto, il piccolo attore tedesco, nella miserabile pensione tedesca, contemplava l’avvenire dalla piccola finestra della sua stanza e si esercitava; quanto voleva migliorare, migliorarsi.

 

Voleva essere un mistero per gli altri, un enfant prodige, ma la sua dedizione all’esercizio, come la dizione, era qualcosa di notevole, al limite del professionismo puro e disperato; sempre che Klaus potesse rientrare nella categoria dei professionisti; un vero artigiano del cinema non lo è mai stato, innumerevoli sono i set mollati dall’attore a metà delle riprese.

 

Kinski 1

 

Ma non è questo il caso. Non può semplicemente puntare i piedi e minacciare una chiamata alla polizia come sta facendo ora.

Lui, il regista “nano” che vuole dirigere un “gigante”. Lui che aveva conosciuto la miseria, così povero da piccolo, tanto da doversi contendere il pane coi topi, viene ora messo al muro da una minaccia.

“Ma non è vero” avrebbe risposto l’uomo alle sue spalle, se solo avesse potuto ascoltare le sue farneticazioni mentali, “Tuo padre era un farmacista polacco. E coi ratti non ti sei mai conteso nulla, se non i cadaveri delle persone che hai deriso, che hai ucciso a suon di parole, durante gli attacchi da schizofrenico in libertà senza possibilità di redenzione”.

“Ma quale redenzione!” ripeteva l’attore nella sua testa in una discussione immaginaria.

 

“Tu il mondo non lo hai mai incantato, Klaus. Sei un alieno, il Kaspar Hauser del Novecento e, lo sai, non saremo felici finché, dopo una dovuta autopsia, non dimostreremo la differenza che corre tra di noi. Tra chi è di scena e chi sta fuori dalla scena; e tu, Klaus, sei sempre stato impossibile da inquadrare; ogni tuo difetto, ogni tuo pregio, è esacerbato fino ai massimi estremi, sei la caricatura di un essere umano”.

E più ripensava a quanto era lontano da una stazione di polizia, più la cosa lo mandava ai matti.

«Ti ritroverai otto pallottole in testa. La nona pallottola sarà per me» continuò Werner Herzog col solito aplomb.

 

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Una delle immagini simbolo del rapporto tra Kinski e Herzog

 

In quegli attacchi oltre la nevrastenia era difficile separare la realtà dall’immaginazione.

A Kinski sembrava quasi di sentire cosa passava per la testa del suo nemico “La tua deformità interiore, è quella che deve emergere”. L’attore si sforzava di capire i desideri dell’uomo che aveva in mano la sua vita; eppure continuava a ricoprirlo d’insulti, per ore e ore, quasi ogni giorno. E più gli sfuggiva il senso della volontà di chi lo dirigeva più le sue urla si facevano stridule.

 

Era liberissimo di buttare il suo talento al cesso e tirare lo sciacquone al kerosene, di girare per Jesus Franco nei suoi film pop erotici senza dover subire per forza il giudizio di nessuno, men che meno di Herzog.

Il giudizio di un uomo che si era rifiutato di licenziare un tecnico, un assistente del suono; quell’uomo sconosciuto era stato preferito al grande Kinski.

 

Incredibile come la vita si manifesti nei piccoli dettagli; l’attore è stanco, provato, le riprese stanno finendo, e chi se le ricorda le battute? Che arroganza pensare che l’uomo che ha ricevuto proposte da Pasolini e da Fellini debba ricordare due battute nel mezzo del nulla. E un uomo, un uomo, come scrisse qualcuno più saggio di Klaus, un uomo “ha bisogno di molte cose”, e questo uomo che ha bisogno di tante e troppe cose, deve ricordarsi di due pidocchiose frasi mentre recita sul Rio Nanay, provato dalle zanzare e dalle condizioni climatiche.

 

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Kinski durante le riprese di Aguirre

 

Allora quell’uomo prende un altro uomo, un suo simile, che non ritiene un pari, in questo caso un tecnico del suono, e lo ricopre da capo a piedi di ingiurie e insulti; lo investe di qualsiasi cosa sgradevole passi per la sua testa in quel momento, inveisce contro di lui perché crede di essere l’oggetto di scherno del tecnico del suono.

Klaus intima Herzog di licenziare quel tipo, il regista pone un veto cortese. Allora il grande piccolo attore corre a far le valigie e riceve una calma e glaciale minaccia di morte.

«Se lasci il film ti ritroverai con otto pallottole in testa prima di raggiungere la successiva ansa del fiume. La nona pallottola sarà per me».

Kinski accarezza la superficie liscia della valigia e con essa dice addio a ogni possibilità di andarsene; e fa quello che farebbe ogni uomo indignato conscio dell’esito finale, del suo destino: protesta e minaccia a sua volta, ma tanto l’avamposto della polizia è a cinquecento chilometri, una distanza tale che neanche tutti gli insulti dell’uomo potrebbero colmarla.

Kinski osserva Herzog e fa quello che farebbe qualsiasi grande attore: torna al lavoro.

 

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