Taxi Teheran, come Partisan: due film a confronto.

Ho sempre pensato che il significato di un’opera d’arte non possa prescindere dalla soggettività di chi la osserva. L’interazione che si instaura tra il fruitore dell’opera, il suo autore e l’opera stessa è il fulcro di ogni attività esegetica. Una sorta di ‘relativismo semantico’ che rappresenta la vera ragione dell’immortalità dell’arte nonché della sua eterna attualità. Tutto questo vale ovviamente anche per l’opera cinematograficaSe esordisco dicendo questo è perché la visione ravvicinata di due film attualmente in distribuzione (si fa per dire) mi ha fatto riflettere, al di là dei diversissimi contesti che rappresentano, sul modo in cui le nostre vite sono determinate dal peso schiacciante dell’autorità. L’ultimo docu-film dell’iraniano Jafar Panahi (Taxi Teheran), vincitore dell’Orso d’Oro all’ultimo Festival di Berlino e l’esordio cinematografico, premiato al Sundance, dell’australiano Ariel Kleiman (Partisan) trattano, in ultima analisi, dell’attacco (premeditato) alla nostra più autentica libertà.

Jafar Panahi, a cui il regime iraniano ha vietato di uscire dal territorio dello Stato e di dirigere film per venti anni, è riuscito a girare in clandestinità un toccante documentario, a metà strada tra realtà e finzione, Taxi Teheran. In una giornata calda ed afosa, un taxi si aggira per le strade della capitale iraniana. È lo stesso Jafar Panahi a condurlo. All’interno della vettura si trova una telecamera, posizionata sul cruscotto, che riprende la quotidiana umanità che sale e scende dal mezzo. Il taxi diventa il veicolo per mezzo del quale Panahi attraversa un Paese apparentemente innocuo ma illiberale e corrotto.
Il regista iraniano è troppo intelligente per urlare la propria avversità al regime, lascia che siano gesti e parole sottili a suggerirci il vero senso di ciò che stiamo vedendo. Emblematico, a questo riguardo, il dialogo che Panahi ha con la piccola nipote a proposito delle regole imposte dal regime a chiunque voglia fare cinema; dal divieto di affrontare questioni prettamente politiche od economiche, a quello di mostrare il ‘sordido realismo’ e preferire, di conseguenza, immagini e storie che forniscano un quadro ‘pulito’ del Paese.

La censura cinematografica diventa così l’emblema della libertà negata. Il furto/sequestro della videocamera con cui il film si chiude rappresenta paradossalmente la sconfitta di un regime e la vittoria di chi si batte per la propria (e di noi tutti) libertà.

 

“The only reason why you can use that gun is because I taught you how”

“The only reason why you can use that gun is because I taught you how”

 

Anche in Partisan si affronta il tema della libertà. Il regista australiano si (e ci) interroga sull’influenza che l’autorità, intesa come figura dominante, possa avere sul nostro percorso di crescita ed apprendimento, sulla nostra percezione delle cose e degli eventi, ed in ultima analisi, sulla nostra libertà di scelta.

 

Alexander vive in una sorta di Comune alla periferia di una imprecisata metropoli, insieme alla madre e ad innumerevoli ‘fratelli’ e ‘sorelle’. Il leader, o padre padrone, del posto è Gregori (Vincent Cassel) che educa i ragazzini all’uso delle armi, sfruttandoli per portare a compimento omicidi a sangue freddo commissionatigli da membri della malavita. Tutto ciò che Alexander conosce del mondo esterno è filtrato dagli insegnamenti di Gregori; uccidere sconosciuti altro non è per lui che il compimento di una pura e semplice ‘commissione’ ricompensata con qualche moneta e stellette dorate adesive. Gregori è l’assoluta figura di riferimento; ciò che dice, vero e proprio vangelo. L’elemento di rottura sarà l’arrivo di Leo, un orfanello trovato da Gregori e portato nella Comune. Leo ha già esperienza diretta del mondo esterno e non ha difficoltà a riconoscere l’ipocrisia e la menzogna negli insegnamenti di Gregori. Avrà così inizio la difficile emancipazione di Alex che, sfidando il ‘Padre’, riuscirà a spezzare il cordone ombelicale e a conquistare la consapevolezza della propria libertà.

 

Ciò che in Taxi Teheran è invisibile, latente, quasi un moderno Panopticon foucaultiano, in Partisan assume le “umane sembianze” di Gregori; è il ‘potere’, l’autorità; ciò che indebitamente, e silentemente, controlla e limita la libertà. Di noi tutti; come Jafar, come Alexander, partigiani della libertà.