La mia vita da zucchina è un bellissimo film d'animazione dalle tematiche mature.
Dopo la premiazione ad Annecy come ‘Miglior lungometraggio d’animazione dell’anno’, il successo a Cannes nella sezione ‘Quinzaine des Réalisateurs’ e la nomination agli Oscar 2017 (dove è stato sconfitto da Zootropolis), direi che è giunto il momento di parlare del nuovo capolavoro firmato Claude Barras: La mia vita da Zucchina (Ma vie de courgette).
Per chi non lo sapesse, Barras è un regista di origini svizzere formatosi a Lyon, classe 1973. Dopo la realizzazione di diversi cortometraggi d’animazione, fra i quali il più apprezzato è The Genie in a Ravioli Can, in La mia vita da Zucchina ha avuto l’occasione di mettersi alla prova con il suo primo lungometraggio, ottenendo risultati più che positivi.
La sceneggiatura del film, tratta dall’omonimo libro di Gilles Paris del 2002, è opera di Céline Sciamma, già comunemente conosciuta nel panorama cinematografico per i suoi gioielli cult Tomboy e Bande de filles (Diamante nero).
La storia ruota attorno al piccolo Icar, soprannominato Zucchina, un bambino di nove anni che dopo aver ucciso accidentalmente la madre, si ritrova solo e destinato a vivere la propria infanzia in orfanotrofio.
In questo nuovo grande nucleo familiare macchiato dal dolore, Zucchina riuscirà a sentirsi nuovamente a casa, scoprendo il valore dell’amicizia, le emozioni del primo amore e ritrovando infine la speranza di ricominciare.
Sgombriamo subito il campo da un equivoco: ‘Film d’animazione’ non significa ‘film esclusivamente per bambini’ e La mia vita da Zucchina ne è senz’altro un esempio.
Zucchina conserva la lattina di birra della madre alcolizzata come il suo ricordo più prezioso; i suoi compagni di avventure Simon, Ahmed, Jujube, Alice, Béatrice e Camille, hanno esperienze di genitori pedofili, carcerati, tossico-dipendenti alle spalle. Questi non sono temi ricorrenti nelle storie infantili, dove il male assume simbolicamente sembianze ‘mostriforme’, quasi impedendo ai bambini di immaginarselo in altro modo. La mia vita da Zucchina può essere quindi definito un ibrido, una commedia incastrata su uno sfondo drammatico, dove l’animazione non solo dà spazio al reale ma permette al reale di esprimersi in una modalità visiva differente.
“L’infanzia per me è al contempo un paradiso perduto e una porta aperta alle emozioni. Con i co-realizzatori con i quali ho già fatto parecchi cortometraggi condivido questa nostalgia e allo stesso tempo amore per l’infanzia, e soprattutto la voglia di raccontare ai bambini delle cose che noi stessi abbiamo vissuto. Non bisogna prendere i bambini come oggetti che consumano il prodotto filmico senza mai riflettere veramente. Abbiamo proposto delle tematiche un po’ più complesse che non sono più solo del puro divertimento.”
Claude Barras
Sebbene dal film traspare l’intento di elevare ‘la perdita e la ricostruzione dell’infanzia’ a temi co-protagonisti, i drammi familiari cui si fa cenno sembrano essere giganteschi stereotipi mai veramente approfonditi. ‘Il pedofilo’, ‘il tossico’, ‘il carcerato’, ‘l’assassino’ diventano quasi delle semplici etichette in secondo piano, banalizzati nel loro male e non particolarmente comprensibili per un pubblico infantile.
La paura di rischiare è evidente quando c’è in ballo una responsabilità così grande.
Al contrario, un tema tabù per più piccoli ma narrato con perfetta autenticità, è quello della scoperta sessuale, che Céline Sciamma ha reso divertente per adulti e bambini, attraverso un linguaggio metaforico ma universale. In questo caso è come se la sceneggiatrice francese sia riuscita a sdoppiarsi, adottando lo sguardo innocente di un bambino senza mai abbandonare la consapevolezza di un corpo adulto.
Il film è stato girato in stop motion, una pratica che prevede il continuo spostamento di appositi pupazzi tra un fotogramma e l’altro per darne l’illusione di movimento. Il risultato finale sarà frutto della giustapposizione in sequenza cronologica dei milioni di fotogrammi catturati. Maggiore è il numero di pose, maggiore sarà la credibilità dei movimenti, che appariranno fluidi e naturali. Si tratta quindi di un procedimento lungo e complesso che nel caso di La mia vita da Zucchina, con i suoi soli 30 secondi di ripresa al giorno, ha richiesto la bellezza di due anni di duro lavoro, dieci in totale considerando l’attesa tra la pre-produzione e la post-produzione. Il tutto si è svolto in 60 micro-scenari dipinti su misura e illuminati dai maggiori professionisti, dove pupazzi di 25 cm sembrano improvvisamente prendere vita, catturando lo spettatore con i loro enormi occhi rotondi alla Tim Burton. Non a caso Claude Barras è stato soprannominato il ‘Burton a colori’. E ancora, non a caso, il direttore dell’animazione è il re della stop motion Kim Keukeleire, conosciuto per aver lavorato proprio con Tim Burton nel film Frankenweenie, e per i suoi precedenti successi sul set di Fantastic Mr Fox (Wes Anderson) e Galline in fuga (Peter Lord e Nick Park).
Il risultato è un insieme di personaggi così naturali nelle loro movenze e sottigliezze espressive che potrebbero quasi sembrare reali, se non fosse per la texture farinosa della loro pelle dovuta all’utilizzo di plastilina. Non stupisce il fatto che siano servite venti bocche diverse per ogni personaggio per ottenere l’effetto del “parlato” durante i dialoghi e nove pupazzi solo di Zucchina che doveva essere messo puntualmente in manutenzione dopo i continui maneggiamenti.
Nel complesso è un film che fa certamente onore a Claude Barras, uno dei pochi registi contemporanei che ha avuto il coraggio e la pazienza di architettare un film in stop motion nell’era dell’animazione digitale.
Piccola curiosità: Barras sta già pensando al prossimo film che parlerà di un piccolo orangotango, ma questa è un’altra storia.