Il regista tedesco Florian Henckel ci riporta nello spazio torbido e drammatico di quegli anni.

“Qualche volta è accaduto che un granello di sabbia
sollevato dal vento abbia fermato una macchina”

                                           [Norberto Bobbio]

 

Il nove novembre del 1989, dopo quasi trent’anni dalla sua costruzione, cade il Muro di Berlino. Con esso cade anche la Repubblica Democratica Tedesca (DDR), un bieco regime di matrice comunista che governava la Germania dell’Est. Con il disfacimento della DDR, i suoi archivi (in particolare quelli della Stasi, i servizi segreti di sicurezza nazionale) vennero aperti ai berlinesi (ed al mondo intero), consentendo così a questi ultimi di venire a conoscenza di tutte le attività segrete di spionaggio che li vedevano coinvolti, quasi sempre a loro totale insaputa. È basandosi su questi stessi dossier che il giovane regista tedesco Florian Henckel, dopo anni di studio e ricerca, costruisce il suo primo lungometraggio, Le vite degli altri, una preziosa testimonianza (scritta in maniera divina) dello squallore, politico e umano, che ha permeato la DDR nei suoi quasi quaranta anni di vita.

 

Georg Dreyman (Sebastian Koch) è un noto drammaturgo, sposato alla giovane e promettente attrice teatrale Christa Maria Sieland (Martina Gedeck). Ligio ai dettami della DDR (ed in particolare del Ministero della Cultura, che sostanzialmente decideva chi poteva fare cultura in quegli anni e chi no: insomma una rivisitazione della censura goebbelsiana), anche se intimamente avverso al regime, Georg viene accusato dalla compagna di vigliaccheria nel momento in cui anche la morte suicida di un amico e collega (inviso per le sue idee dalla Stasi e per questo esiliato dal mondo della cultura) non lo scuote dal torpore. Anche per questo deciderà di rischiare la propria carriera redigendo un articolo (da inviare clandestinamente oltre muro al settimanale Der Spiegel) sui numerosi suicidi verificatisi negli ultimi anni tra gli intellettuali e che la DDR ha prontamente insabbiato. Nel frattempo il Ministro della Cultura Bruno Hempf, infatuatosi di Christa Maria, ordina ai dirigenti della Stasi di avviare un procedimento di spionaggio nei confronti di Dreyman, per riuscire a trovare qualche prova per poterlo incastrare, così da avere via libera nei confronti del suo oggetto del desiderio. L’operazione verrà assegnata al capitano Gerd Wiesler (Ulrich Muhe), brillante e meticoloso sottufficiale dei servizi, figura emblematica del grigio funzionario di Stato. Tuttavia, nello svolgere l’incarico, Wiesler si troverà a fare i conti con la propria coscienza, dovendo decidere a chi deve la sua lealtà. A sé stesso oppure al Partito.

 

Ciò che colpisce maggiormente, oltre ad interpretazioni maestose (la Gedeck ed Ulrich Muhe su tutti) e ad una scenografia perfetta nel restituirci lo spazio torbido e deprimente che ha fatto da sfondo a quegli anni drammatici, è la sublime costruzione drammaturgica che spinge quasi ad azzardare una consonanza con la migliore tragedia sofoclea.

Oggi, a venticinque anni da un avvenimento storico tanto importante quanto ricco di implicazioni simboliche, merita riavvolgere il nastro della storia, tornare indietro e buttare un occhio al di là del muro, diventando così testimoni ideali di cosa significasse, per milioni di berlinesi (e non solo), vivere nel clima opprimente e liberticida che ha caratterizzato quegli anni.