L’immagine mancante, dice ancora Panh, siamo noi.

 
Ci sono molte cose che un uomo non dovrebbe né vedere né conoscere. E se pur le vedesse sarebbe meglio per lui morire. Ma se uno di noi ha visto o conosciuto queste cose, allora deve vivere per raccontarle

 

Il 17 aprile 1975 i Khmer Rossi, membri del partito comunista cambogiano, presero il potere e trasformarono la Cambogia nella Kampuchea Democratica, un totalitarismo di matrice comunista-maoista. Nei quattro anni successivi il suo leader, noto col nome di Pol Pot, mise in piedi un regime illiberale che prese le mosse dalla deportazione di più di due milioni di persone dalle città (in particolare dalla capitale, Phnom Penh) alle campagne, privando ciascuno della propria libertà, del nome, costringendoli a lavorare nelle risaie, nei campi, per la costruzione di una società fondata sui principi del collettivismo, dell’egualitarismo (tutto inizia con un ideale di purezza e termina con l’odio). Chiunque si opponeva era sterminato: più di un milione di persone perse la propria vita. Rithy Panh era un bambino a quell’epoca e in quei quattro anni (la dittatura cessò nel 1979) perse il fratello (ucciso negli scontri del 17 aprile) il padre (che si lasciò morire) ed infine, la madre.

 

L’immagine mancante è innanzitutto la sua infanzia.

 

La dittatura di Pol Pot si fondava soprattutto, come ogni altra dittatura, sul controllo delle masse, che avveniva principalmente attraverso l’indottrinamento ed il lavoro forzato. La propaganda assumeva dunque un ruolo fondamentale, gli slogan erano ripetuti fino allo sfinimento, il cinema era monopolio del Partito e strumento di diffusione dell’ideologia dei Khmer Rossi. Le immagini di repertorio allora raffigurano solo ciò che il Partito voleva far conoscere all’esterno.

 

L’immagine mancante è la deportazione dei cambogiani.

 

Il giovane Rithy Panh cerca allora di sopravvivere tra la fame che corrode il corpo e la perdita degli affetti che corrode l’anima. Per resistere, ci dice, è necessario conservare un pensiero, un ricordo. Infatti, è possibile rubare un’immagine, ma non un pensiero. E il suo ricordo non può che essere legato al mondo libero, ai tempi antecedenti al 17 aprile di quell’anno maledetto, alle feste in famiglia, alla musica, ai canti. Era pur sempre un mondo imperfetto, ma felice agli occhi di un bambino.

 

L’immagine mancante, dice ancora Panh, siamo noi.

 

Alla fine del percorso Rithy Panh realizza che l’immagine che cerca, non può trovarla. Semplicemente, è mancante. Non può esistere un’immagine che restituisca il senso dello sterminio di un popolo. Naturalmente non ho trovato l’immagine mancante.

 

Così ho deciso di crearla. La guardo, me ne prendo cura. La tengo tra le mani come si fa con un volto amato. Questa immagine mancante ora io vi affido affinché non smetta mai di cercarci.