In questo film Lars von Trier stupisce ancora rinunciando, quasi interamente, alla crudezza e alla violenza delle sue celebri immagini.

Un lungo prologo, una lenta introduzione che si rivela riassuntiva, una sapiente mistura di musica wagneriana e pittura in movimento. E’ così che si presenta agli occhi dello spettatore l’incipit di Melancholia, pacifico e inquietante al tempo stesso.
Chiunque abbia visto qualche film di Lars von Trier pensa di sapere cosa aspettarsi entrando in sala: con Dancer in the Dark, Dogville, Antichrist il regista danese ha ampiamente dimostrato di saper abilmente, e volutamente, destabilizzare e frantumare ogni nostra sicurezza, mettendoci nella situazione di doverci porre dei quesiti che si pensava avessero già trovato una risposta.
In sala mi reputavo preparata, “al sicuro”, pensavo già al peggio. Ma, ancora una volta, mi sono scoperta spiazzata: in questo film Lars von Trier rinuncia, quasi interamente, alla crudezza e alla violenza delle sue celebri immagini, lasciandoci confusi, stordendoci con inquadrature che sembrano uscire dal Purgatorio, da quella terra di mezzo che ci è difficile ricondurre al modus operandi di questo grandioso regista.

 

In un mondo prossimo alla Fine, due sorelle si destreggiano tra sentimenti complessi e una quotidianità al limite dell’inutilità: Justine (Kirsten Dunst) partecipa al suo matrimonio in grande stile come se fosse un avvenimento che le è totalmente estraneo, avvolta nel velo della depressione che si fa sempre più pesante e dal quale si lascerà facilmente vincere. Sua sorella Claire (Charlotte Gainsbourg, musa del regista) si preoccupa per Justine, non la capisce, la critica, ma cercherà di comprendere tutto ciò che accadrà, nonostante la razionalità si dimostri palesemente fallace e insufficiente.
Le figure delle due sorelle sono i pilastri dello scheletro del film, che si fa bipartito, dando equamente a ognuna la propria parte (la prima è dedicata a Justine, la seconda a Claire). L’angoscia di Justine apre le porte all’oscurità, fino a quel momento a malapena intravista tra un sorriso e l’altro degli invitati al matrimonio. Justine riesce a percepire prima di tutti gli altri, così come allo stesso modo fa la Natura, quello che realmente sta accadendo: il pianeta Melancholia è diretto verso la Terra, e la collisione è solo questione di tempo. L’apocalisse è alle porte. Attraverso Justine, Lars von Trier ci lancia un messaggio che di velato ha ben poco: l’umanità non merita di sopravvivere.
A questa si oppone un’altra visione del regista, esposta tramite Claire, secondo la quale deve esserci un’altra spiegazione, un senso più logico, e magari una via d’uscita. Ma una via d’uscita non c’è, e il mondo che noi conosciamo è destinato a dissolversi. Le certezze di Claire cominciano a vacillare quando la sorella, ospite in casa sua dopo il fallimento del matrimonio, comincia a sembrare più credibile, meno “folle”.
In Claire sboccia il seme della paura, mentre in Justine è ormai germogliato il fiore della rassegnazione: non c’è niente che si possa fare, questa è la fine, quella che la razza umana ha meritato di avere, ed è giusto che sia così.

Uno scontro tra due personalità diverse, una battaglia tra la sopravvivenza e la morte, il cui esito è già stato percepito dalla (saggia e onnisciente) Natura, che si fa sempre più ostile e agitata; mentre in noi spettatori rimane comunque una sorta di calma, forse evocata dall’omaggio che il regista del Dogma ha voluto fare all’arte, perfetta e immutabile, anche in uno scenario apocalittico.
Inquadrature severe, crude e a tratti “dogmatiche” cedono ritmicamente il posto a immagini pacifiche che potremmo amare in un quadro; ed è in questi che Lars von Trier magnanimamente ci concede, anche solo per un attimo, di tirare un sospiro di sollievo.

Melancholia è un film, a mio parere, magico e potente, grazie in primis alla sua incredibile capacità di incantare lo spettatore. Una cosa è certa: durante la sequenza finale sfido chiunque a distogliere lo sguardo dallo schermo anche solo per un secondo. Un finale maestoso, meraviglioso, mistico. Chiudere gli occhi? Mai. Io ho preferito stancare le palpebre.