Ecco perché Mindhunter è l'ennesima serie TV che non possiamo smettere di seguire.
Che grande serie Mindhunter. Sì, partiamo proprio con il chiaro intento di osannare – e più o meno esaminare – uno degli show di maggior presa (per nostro stupore e, leggendo le review internazionali, anche per il loro) che potete trovare in quel tumulto visivo chiamato Netflix, ormai imperatore incontrastato che detta leggi produttive, mode, tormentoni, tracce da seguire. Perché è chiaro a tutti che viviamo, grazie ad una ventata di idee libere dai confini cinematografici, un tempo in cui le serie TV hanno raggiunto – e superato, in molti casi – la qualità narrativa di un ‘semplice’ film. Basti ripensare agli show seguiti, quelli di fattura pregevole con un cast stellare o uno sceneggiatore premio Oscar: la serialità ha dato modo di sperimentare nuovi linguaggi, osare, intrattenere e stupire puntata dopo puntata, stagione dopo stagione.
In una Hollywood sempre più in crisi di risultati e di disgustosi scandali. Ecco, grazie a Netflix, Hulu, Amazon, HBO, Sundance TV e via discorrendo, che il piacere di un’opera si allunga, durando una notte o un mese di appassionata visione, facendo sì che i personaggi (anche quelli negativi, perché no) diventino qualcosa di estremamente familiare. Cosa che il cinema, purtroppo, non può fare, se non con i sequel dei sequel dei sequel che, però, per bocca di molti “hanno stancato!”, senza capire che il cinema mainstream (quello autoriale, pop o indie, merita un altro discorso), se vuole sopravvivere alla televisione, deve obbligatoriamente imitarla.
Non a caso, la serie in questione, segna un’ulteriore passo in avanti in questo percorso evolutivo del piccolo schermo, ritagliandosi un importante spazio. Mindhunter, dieci episodi in totale e già rinnovata almeno per un’altra stagione, infatti è capace di trattare un argomento trito e ritrito senza però minimamente ‘sporcarsi le mani’, portando ad uno step fin ora mai visto il classico prodotto incentrato su FBI, indagini e serial killer. Ma facciamo un passo indietro: la serie, basata sul libro Mindhunter: La storia vera del primo cacciatore di serial killer americano, scritto da Mark Olshaker e John E. Douglas (ex agente), ideata dal britannico Joe Penhall, è prodotta da nomi come Charlize Theron e David Fincher, anche regista di quattro episodi, sempre più a suo agio nella mente umana e nel mondo TV, dopo aver messo lo zampino nell’altro prodotto per eccellenza Netflix, ovvero quell’House of Cards che, ad onor della cronaca, dopo aver scritto, forse, la pagina più importante tra le series, si è ritrovato nella bufera soffiata proprio dal suo indiscusso protagonista.
E chissà cosa avrebbe pensato di queste reiterate e allargate accuse l’agente FBI Holden Ford, interpretato dal ‘rassicurante’ Jonathan Groff, che nel 1977, come la serie ci racconta, dopo aver intrapreso – con risultati altalenanti – la carriera di negoziatore, inizia, insieme all’esperto agente Bill Tench, con il volto di Holt McCallany, un percorso all’interno del reparto di scienze comportamentali, andando ad ascoltare le voci dei più efferati killer in giro per le prigioni di mezzi States, cercando, in modo più o meno ufficiale, di tracciare dei profili comuni, immergendosi totalmente nelle oscure anime e nei meandri più reconditi di diversi, pericolosi e sfaccettati individui. I due agenti, affiancati dalla docente universitaria e dottoressa Wendy Carr, la glaciale Anna Torv, metteranno su una vera e propria task force della mente killer e assassina, facendo da avanguardia agli odierni e appurati studi, basati proprio sulle loro ricerche e intuizioni.
In Mindhunter le cose funzionano tutte, benissimo, dopo un primo episodio in cui si va a costruire l’impalcatura per quello che poi vedremo ripetersi e migliorare step by step. Lo stile narrativo, minimal, quasi essenziale, eppure dalle improvvise accelerate dosate dai racconti narrati dai numerosi assassini psicopatici – uno su tutti, Ed Kemper, con i panni di un enorme Cameron Britton, che ci fa sobbalzare fin dalla prima puntata –, è così oliato, minuziosamente scritto, dettagliato eppure mai prolisso, da non risultare in alcun modo noioso. Anzi, regala al pubblico un’ottima dose di intrattenimento che non sfiora il banale. Perché la caratteristica principale, come già sottolineato, è la storia: ci sono i buoni e ci sono i cattivi, ci sono le declinazioni di ciò che può essere giusto e ciò che può essere sbagliato; in cui giostrano gli archetipi del thriller, del poliziesco e del noir, riscrivendo però le regole del genere e tagliando di netto la parte voyeuristica dei crimini.
Il male, qui, è già arrivato, e i buoni si ritrovano seduti allo stesso tavolo, dividendo la pizza con lui, ascoltando la sua versione, cercando di capire, parola dopo parola, cosa lo ha spinto allo stupro, alla sevizia, all’uccisione. Il buono diventa dipendente dal male. E le parole sono le assolute protagoniste di questa serie già cult, cucite addosso ad una coppia di detective in continua tempesta, in bilico tra il dovere, il potere, la morale. In una giostra che non li fa scendere mai, nemmeno quando hanno la consapevolezza di essere andati oltre. Perdendo di vista il punto di non ritorno, inghiottiti e fagocitati da un male sempre più potente, reiterato, seriale. Lucidamente, pericolosamente, pianificato.
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