Alexander Payne sceglie il bianco e nero per raccontare un’America che ha ormai perso i colori e lo smalto di un tempo.

Alexander Payne è un regista che è passato spesso inosservato dalla critica, ma dal 2005 in poi con il suo primo grande centro, Sideways, ha iniziato un trend positivo degno di nota.
In quasi tutti i suoi film Alexander Payne ci mette davanti ad un passato che riemerge lentamente da angoli bui, quasi dimenticati, un passato che riaffiora solo per far prendere coscienza ai protagonisti di quanti fallimenti si siano lasciati alle spalle, di quanti rimpianti avranno per sempre, lo stesso meccanismo attanaglia e stritola Nebraska fino a rilasciare una forza mai così ben espressa in nessuno dei suoi film precedenti.

 

Una strada lunga, un vecchietto cammina con passo sciancato verso lo spettatore, ci viene incontro, sembra quasi voglia chiederci aiuto, la polizia lo troverà e chiamerà il figlio perché vada a riprenderlo.
Il vecchio scontroso Woody Grant (uno straordinario Bruce Dern) ha vinto un milione di dollari, o meglio pensa di averli vinti, attratto dall’inganno spietato di una pubblicità per allocchi, ma Woody crede nella vincita, è deciso a raggiungere Lincoln, il Nebraska, per ritirarla, partire dal Montana e attraversare ben cinque stati, a piedi se necessario.
La moglie e l’altro figlio Ross (un ottimo Bob Odernkirk) lo prendono per pazzo, affermano in continuazione che se continua così dovranno rinchiuderlo in una clinica, ma il figlio David (Will Forte) no, non ci sta, si rende conto che non conosce affatto suo padre, si rende conto che i giorni che potrà passare con lui non saranno infiniti, e decide di accompagnarlo in macchina nella sua sgangherata odissea.

 

Nebraska di Alexander Payne

 

Alexander Payne sceglie il bianco e nero per raccontare un’America che ha ormai perso i colori e lo smalto di un tempo, o che non li ha mai avuti.
I due si fermeranno ad Hawthorne, piccola cittadina di provincia, paese natio di Woody e culla dei suoi ricordi, ricordi che stanno ormai scomparendo insieme ai pochi momenti di lucidità che gli sono rimasti.
Payne ci mostra una provincia addormentata, calcificata in un sonno primordiale, inebetita dalla scatola parlante che per molti è diventata un surrogato di quello che ci sta intorno, sognare davanti alla tv, risucchiati da quiz e programmi alienanti.

 

I parenti di Woody lo accoglieranno a braccia aperte, come i pochi amici che gli sono rimasti, e le apriranno ancora di più non appena la notizia da un milione di dollari sarà di dominio pubblico.
Verranno fuori scheletri dall’armadio, tenuti nascosti per tantissimo tempo, l’avidità circonderà il povero Woody, che sembrerà non capire molte delle situazioni che lo circondano, ma il volto è quello di un uomo che ha sofferto, che è rimasto traumatizzato dalla guerra in Corea, che non ha mai chiesto aiuto a nessuno come non ha mai detto di no a nessuno, un uomo che si è reso conto di non aver fatto abbastanza, che ha sperperato soldi bevendo a più non posso; ma il riscatto è a portata di mano, il milione è a Lincoln, basta arrivarci.
Preso in giro un po’ da tutti continuerà il suo viaggio fino alla meta, il suo on the road deve continuare, il giro non è stato ancora completato.

 

Woody rincorre il sogno americano, vuole il milione per ridare senso alla sua vita, vuole un furgone, vuole riacquistare dignità, perché il passato – come ci dice Payne – è passato, ma il presente, quello si che è a portata di mano.
Dopo essersi sentito dire che non è il vincitore, Woody, sguardo duro, scolpito nel tessuto della vecchiaia, del dolore, accetterà di tornare a casa.
Di ritorno il vecchio Woody avrà la sua rivincita sulla vita, su una provincia anchilosata dal tramonto dell’american dream, senza il suo milione in tasca, ma con un pick-up sotto al sedere.

 

Alexander Payne ci racconta una storia di sconfitte, fallimenti, rinascite, facendo parlare molto i suoi personaggi; ma i momenti più belli restano i silenzi, quello strato di non detto che abbozza sentimenti, che lascia la libertà allo spettatore di immaginare storie, passati solo affiorati, legami apparentemente flebili che si dimostrano forti come catene, catene che uniscono padri e figli, facendoli sbattere contro le difficoltà della vita ma tenendoli saldi, incatenati l’uno a l’altro fino alla fine del viaggio.