La tormentata vita di Steve McQueen, uno dei più grandi ribelli di Hollywood.

“Combatteremo” disse Barbara “Non ci arrenderemo”.

“L’ho mai fatto?” disse lui scoppiando a ridere.

Il mestiotelioma, rara forma cancerogena, aveva corroso il lato destro del suo corpo, muscolatura un tempo nervosa e tonica.

E se l’inderogabile verdetto recitava tre mesi appena, lui invece continuava a ripetere che quell’ultimo capitolo già scritto poteva considerarsi di certo il più bello di sempre. Accanto insomma c’era Barbara, la terza delle mogli, quella che rispetto alle altre due era scevra dai vezzi dell’ambizione della ribalta e che gli restava accanto – un po’ geisha, un po’ madre – per i campi del ranch di San Paula, fra i cespugli di artemisia, il limpido ruscello e le formule di fumo degli indiani navajo a gambe incrociate.

 

Risalivano in un solo respiro, negli ultimi racconti di ricognizione di una vita, gli odori antichi e cattivi che non l’avevano mai reso sereno di esserci e che però, ora, erano anche addolciti dal sentore della dissolvenza, i trucioli di tornitura, la puzza dell’acido fenico, il fetore della lavanderia – “tre-uno-otto-otto”, persino il numero di matricola al riformatorio aveva una sua traccia nei racconti.

 

Il 6 novembre del 1980, un amico gli inietta una dose di coagulante, la Bibbia sul versetto “Dio infatti ha tanto amato in modo da dare il suo figlio unigenito, perché chiunque creda in lui non muoia, ma abbia una vita eterna” scivola via, gli occhi che avevano assunto un colore grigio scuro nell’ultimo anno, ritornano di nuovo dell’azzurro dei laghi del Missouri. Una semplice bara messicana per scelta. Cercare di ritornare parte degli elementi fra le ceneri sparse nel Pacifico. Adesso.

Abdica, a cinquanta anni esatti, il “re dal sangue freddo”.

Lui era Steve McQueen.

 

Steve McQueen 1

 

 

Steve nasce il 24 marzo 1928, a Beech Grove, un sobborgo di Indianapolis, panoramica di rombi di fabbriche, acciaierie pesanti.

Julia Ann Crawford, la madre, ha abbandonato nel 1927 la famiglia di commercianti cattolici di Slater per la città, dove incontra due anni dopo Bill, l’ex aviatore che vagabonda fra circhi acrobatici e bettole per giocatori d’azzardo che a sei mesi dalla nascita del bambino, li abbandona.

 

Il suo nome completo, Terence Steven, gli era stato dato in odore di un giocatore d’azzardo senza un braccio di Wild Will’s, una delle bische clandestine gestite dal padre.

La spada di Damocle che peserà sulla testa di Steve per tutta la sua esistenza sarà la consapevolezza di essere stato abbandonato dalle due figure accudienti.

Odia Julian più di Bill l’assente, perché lei lo preferisce alla bottiglia e lo sradica continuamente da quella parvenza di casa composta da camere d’albergo, per riportarlo dai suoi genitori o magari lasciarlo per intere notti fuori a vagare sul White così ghiacciato da spaccare la pelle, un assordante vuoto fischia dai treni merci, mentre i clienti aspettano sua madre sfatti a letto.

 

Nella più estrema insicurezza dell’abbandono e nell’acre precarietà del degrado, la sensazione che la vita doveva essere un vero schifo accompagnerà Steve fino alla fine, anche se continuerà comunque a sognare la possibilità di ben altri mondi.

Legato al suo essere figlio bastardo degli anni 30, “Bud Bastardo” come era apostrofato dai ragazzetti per strada prima che lo prendessero a legnate e sputi. Non si fida di nessuno e invidia, famelico, più o meno tutti.

Verso i sei anni Julian lo lascia a Thomson Lane, nella fattoria gotica dello zio Claude, uomo opportunista e scaltro che lo costringerà, di ritorno da scuola, a badare ai maiali del porcile.

 

Steve come ogni alunno patologicamente timido, si rassicura nello studio mnemonico e incomincia ad incastrarsi volutamente in un silenzio irrevocabile.  L’orecchio sinistro oramai leso, dalle botte dei compagni e dalle cinghiate dello zio.

Quelle poche volte che Julian lo ospita, Steve in attesa dell’ultimo amplesso della madre con l’ennesimo senza volto conosciuto in un bar, lo trova sempre, pioggia & vento, al Cinema Roxy a trangugiare avidamente western e noir.

E’ ammaliato soprattutto dal Bogart di Una pallottola per Roy e da Bogie prova ad assimilare il suo ghigno, il flusso cinetico di animale ferino, la concentrazione del sicuro e dell’insicuro in una sola monolitica faccia.

 

Ma una notte invece che le sequenze di cowboys e detective del Roxy, Steve si ritrova davanti il sudore delle labbra viola del patrigno sul corpo e di questa molestia sessuale si ricorderà soprattutto quel ghiaccio che colava dal soffitto, la putrescenza della sua innocenza tanto che per anni ripudierà l’idea di sentir parlare d’amore: “mi sento allo stesso modo prima, durante e dopo aver scopato, una merda.”

 

Illegittimo, molestato, dislessico, sordo e picchiato a sangue dallo zio, traumatizzato dalla schizofrenia della nonna,  Steve, come direbbe Cagney, inizia a nascondersi nella sua “Alcatraz di commiserazione”, fra giornate in completa solitudine e scazzottate di rabbia costante, isolamenti nelle prigioni, come quei quattordici mesi fra l’odore pungente di tappetini di stracci, cavoli e trippa in umido allo Junior Bsy Republic a Chino. Dove un pomeriggio, in cui riceve la notizia che la madre aveva invece appena disdetto quell’unico incontro fissato, lo vedi attaccato al reticolato a piangere, ancora una volta tradito da quella donna che disprezza  con ogni fibra del suo corpo e che è l’unica dalla quale disperatamente cerca la  più totale approvazione.

 

Steve McQueen 4

 

A diciassette anni Supie si sente già vecchio.

Inizia a lavorare nei pozzi di petrolio a Wico, vende penne e matite per un venditore ambulante di medicamenti, boscaiolo in Ontario, boxe semiprofessionale e qualche piccolo crimine fino a quando, una sera, da ubriaco, firma al bar un foglio che lo vede arruolato in marina a bordo dell’Alpha, da Trinidad.

 

Sotto le armi, a parte l’eredità del cancro (il mesotelioma è una forma acuta di avvelenamento da amianto che si trovava nei carri armati che guidava e negli isolanti dei dormitori), Steve acquisisce una decisa insofferenza alla disciplina e a qualsiasi forma di autorità, un anarchico che legge i suoi diritti (al bere, a scopare, il diritto al “vaffanculo”).

 

Nel 1950, dopo i quattro anni da soldato, Steve è congedato – e non senza una certa riverenza – proprio da quelle autorità che lui rifiuta, per aver salvato in mare, eroicamente, cinque soldati durante un’esercitazione, si sposta a Whashington per lavorare come tassista, mozzo, giocatore professionista, gigolò, fattorino, apprendista barista, venditore di enciclopedie.

La depressione però a volte lo tiene stretto così forte fra le sue spire che l’unica possibilità è bere fino al coma per tener testa alla vita, e anche alle pollastrelle, con le quali fare sesso da sobrio è certamente fuori discussione.

 

L’adolescente smunto, butterato e schivo lascia il posto a un uomo basso ma compatto, nei tratti duri, il viso di un pugile, e delicato, un sorriso di svariati milioni di volt di fascino sintetico.

Al Diner Louie’s, viene convinto da un’attrice conosciuta durante un amplesso; che gli dice: “Tu non hai mai smesso di recitare da quando sei venuto al mondo”. Ecco l’illuminazione: diventare non solo un attore, ma il più grande attore di Hollywood, riscattarsi dalle umiliazioni di una vita.

 

Il 25 maggio 1952 entra alla scuola di arte drammatica Hagne-Berghof.

Riga dopo riga studia i copioni giorno e notte per sconfiggere dislessia e semianalfabetismo, acquisisce la capacità di dosare il timbro vocale, spesso troppo acuto, muovere il corpo, non tradire mai l’incrollabile fiducia in se stesso, in quel posto dove “trovò un po’ di gentilezza in un buco dove la gente discuteva dei propri problemi invece di prenderti a pugni” per diventare il miglior (re)attore della sua generazione adattando ogni scena al proprio linguaggio del corpo – muovere le lunghe ciglia, la fossetta sul mento, ogni battuta doveva filare liscia come l’otto in buca d’angolo e se c’erano richiami li trovavi nel realismo sottile di Bogie e Garfield.

 

Sulla bisessualità del macho dall’effeminatezza inquietante si diffondono diversi aneddoti già ai tempi della scuola, come quella volta che lo trovano iracondo dopo che James Dean si è rifiutato di ricambiare di pettinargli i capelli chiamandolo “mangia spaghetti”.

Steve, agli inizi degli anni 50 è soprannominato Big Mac sulla scena newyorkese per la sua voracità a portarsi a letto qualsiasi donna a tiro; a loro chiede da un lato di allattarlo e di posare nude per studiarne meticolosamente i tratti – il cucciolo indifeso e seduttore un po’ goffo – dall’altro invece è indifferente alle seconde volte e al romanticismo, meglio ingozzarsi di jum-jive, ingollarsi alle oneste Old Milwuakee, fumare erba.

 

Steve McQueen 2

 

 

Eppure nel 1956 incontra Neil Adams, attrice cresciuta a Hong Kong, anche lei uccellino ferito dalle mancanze familiari, e forse per la prima volta capisce di non poter fare a meno della presenza di una compagna nella sua vita.

Neil lo tranquillizza, gli suggerisce come muoversi fra i provini, lo indirizza a diventare un maestro dell’autopromozione (invia fasci di rose alle mogli dei dirigenti) e a lavorare come un diavolo all’obiettivo di sentirsi arrivato, provino dopo provino, ché tutto per lui è sempre questione di vita o di morte.

Grazie a Grefein viene preso alla MCA e l’anno successivo è già a New York a girare.

Lassù qualcuno mi ama, drammatizzazione del pugile Rocky Graziano fra le luci crude di Hell’s Kitchen, lui è il balordo Fidel dal coltello, voce aspra, atteggiamenti minacciosi, bocca sottile e occhi da cucciolone.

 

Continuerà per tutti i suoi film a recitare come dietro una porta blindata e sorprendentemente a donare fascino ai propri personaggi, d’altronde la recitazione significa “non fare nulla, ma farlo bene” e il vero eroe hemingwaiano fonde complessità e ricercatezza per ritrarre della vita ogni frammento di tormento.

 

Dopo la parte dell’autista della macchina per la fuga dei rapinatori di banca in Gli occhi del testimone, dove chiude singhiozzando con un “io questi nemmeno li conosco!”, Steve sceglie i 3000 dollari invece che il 10% degli incassi del film di serie b Blob, fluido mortale, che guadagna invece 20 milioni di dollari (errore di valutazione che lo avrebbe fatto incazzare a vita).

La leggenda dell’antieroe solitario nasce qui, McQueen l’emarginato ribelle che diventa eroe cittadino, oltre la generazione alla Brando e Dean delle “magliette strappate” e della Gioventù Bruciata degli anni ’50, McQueen portava in scena i drammi di se stesso.

 

Nella contraddizione tipica del suo carattere, Steve è competitivo con le vecchie guardie quanto leale con i colleghi alle prime armi, gentilissimo con le donne che lavorano dietro le quinte e cinico verso quelle che si porta a letto, amante degli animali tanto da adottare quanti cani può e volontario a raccontare fiabe fino a tarda notte nel reparto di pediatria nell’ospedale di Midway.

 

Continua ad avere pochi amici, preferisce scorrazzare in moto o in auto di grossa cilindrata fino alla stazione della Union 76 per continuare a discutere di meccanica, la cosa che più lo rende felice al mondo, dice.

In uno strano cocktail di egocentrismo ed immaturità, quando riesce a rilassarsi senza la paura di essere rifiutato si scopre un uomo dolce e docile, il semi-analfabeta dislessico gran lettore di Ibsen e Checov.

 

Nel 1959 riesce a rintracciare una donna che gli rivela che Bill, suo padre, è morto tre mesi prima e gli consegna una foto e un accendino Zippo che lui asserisce di aver gettato ma che in realtà consegna in gran segreto alla prima figlia, quella che “è perfetta”, Terry Leslie, seguirà Chadwick Steven, che tanto gli assomiglia nel carattere, così tanto da puzzare sempre di “freni surriscaldati”.

 

Steve McQueen 3

 

 

Ne La grande fuga il progetto di Steve è di portare in scena un eroe che non vuole fare nulla di eroico ed è proprio grazie a questo film che “Il re cool” diviene in poche settimane il macho per eccellenza del mondo occidentale, il ribelle autosufficiente che sguscia tra le maglie del sistema, il sopravvissuto che preferisce un’uscita di scena gloriosa a una vergognosa resa.

 

Oramai Steve è arrivato.

 

C’era qualcosa di universale che faceva in modo che la gente tenesse a lui, lo seguisse, lo idolatrasse, volesse essere lui.

Casa al mare a Palm Springs, il “Castello” sulle colline di Brentwood, collezione di pistole antiche e macchine, palestre per la sua ossessione per il fitness.

Dopo quel suo biglietto ambulante per san Valentino del personaggio di Strano incontro, L’ultimo tentativo sarebbe dovuto essere – da un lato puramente commerciale – uno dei suoi film peggiori e invece sarà uno dei migliori in assoluto.

 

Ama Neile ma continua a tradirla regolarmente, la ama e le dice di poter vivere senza di lei, eppure non riesce a svincolarsi dalla sua dipendenza o dall’idea di volere che Neile rimanga rinchiusa in casa, una casalinga a tempo pieno che viva solo per lui; la stessa cosa pretenderà dalla seconda amatissima Ali McGraw, anche lei attrice, che sarà costretta a lasciare per la stessa ragione, la gelosia folle, l’urgenza di saperla solo sua, a preparargli da mangiare, ubbidirgli e rassicurarlo nei giorni di insicurezza e mutismo.

 

Le sbronze aumentano, si intrecciano più “lucine rosse colorate” che vede sotto LSD, le risse e la convinzione che dove tutti gli altri devono fallire, lui invece deve consolidare il suo status, i suoi deliri di puntualità altrui, l’ego maniacale nella suscettibilità e nella paranoia che non può fidarsi di nessuno e che tutti vogliano fregarlo.

Fama, successo, donne e lui che non si libera dalla sensazione di aver fatto qualcosa di sbagliato.

 

L’importanza, perciò, del sorriso di un uomo sul “Ce l’ho fatta! ce l’ho fatta!”,

le ultime parole di Steve McQueen, prima di morire.

 

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