Ciò che è ancora più agghiacciante nel film di Martin Scorsese è che il sogno di Jordan Belfort è, alla fine dei conti, il sogno di tutti.

 
Dopo molti anni vede finalmente la luce il progetto della coppia Martin Scorsese e Leonardo DiCaprio di mettere in scena l’autobiografia di Jordan Belfort, fondatore della Stratton Oakmont, agenzia di brokeraggio con la quale è riuscito a costruirsi un’enorme patrimonio truffando numerosi investitori fino a quando, entrato nel mirino del bureau, viene smascherato e condannato.

 

Alle prese con un adattamento sicuramente ostico Martin Scorsese in The Wolf of Wall Street da fondo a tutto il suo straordinario repertorio cinematografico regalando nuovi momenti da consegnare alla storia del cinema fra piani sequenza e carrelli mozzafiato il tutto sapientemente montato dal suo editor di fiducia (Thelma Schoonmaker). Conferma, se ancora ce ne fosse stato bisogno, di essere il miglior regista vivente.
 
Non da meno è la straordinaria performance di Leonardo DiCaprio (nuovo feticcio scorsesiano dopo Robert De Niro) nel ruolo della vita che forse gli regalerà l’ambita statuetta, vera punta di diamante di un cast che funziona alla perfezione (menzione d’obbligo anche per la spalla Jonah Hill, anche lui in odore di statuetta).
 
Ma veniamo al film, partendo da una necessaria premessa: se da qualche parte si è ritenuto opportuno gridare allo scandalo per la rappresentazione troppo romanzata e vagamente idolatrante della vita di colui che rimane a tutti gli effetti un criminale (da questo punto di vista non ha certo giovato aver dato a Belfort il volto bello e carismatico di Leonardo Di Caprio) dal mio (e non solo) punto di vista il film riesce, in tutti i suoi quasi centottanta minuti, a mostrare, senza cadere in facili moralismi o gustizialismi, la parabola di un uomo che per inseguire il sogno della ricchezza ha deliberatamente scelto di percorrere vie che scorrono parallele a quelle della giustizia (innanzitutto americana: “fuck you, U.S.A.” si grida negli uffici della Stratton Oakmont). Parabola che ricorda, nella sua ascesa-discesa, quella dei gangster tanto cari al regista newyorkese, da Henry Hill a Sam Rothstein.
 

The wolf of wall street - Margot Robbie e Leonardo Di Caprio

 

Quello di Martin Scorsese è tuttavia un sottile ma nondimeno potente atto d’accusa ad un mondo, quello capitalista, in cui tutto è in vendita perché tutto ha un prezzo, dove si vende perché si è prima creato un bisogno ad hoc, dove i soldi sono la droga più potente. In un mondo così vince non chi fa soldi ma chi ne fa a spese degli altri, chi, per usare un’espressione più colorita, riesce a metterlo nel culo agli altri (emblematica a tal proposito, ed agghiacciante, è la scena in cui il protagonista mostra ai suoi colleghi novizi come fottere un cliente).
 
Ciò che è ancora più agghiacciante però è che il sogno di Jordan Belfort è, alla fine dei conti, il sogno di tutti. Nella scena che chiude The Wolf of Wall Street, nella attentissima platea, dinanzi alla quale Belfort sta svolgendo la sua nuova occupazione di motivational speaker, ci sono persone comuni, nuovi adepti, che pendono dalle labbra di colui che “ce l’ha fatta”, concentrati per cercare di carpirne il segreto.
 
Il denaro (così come il sesso o la droga) rappresentano il bisogno primario, assolutamente animale, in un mondo totalmente asservito alle logiche del capitale. Il dollaro come unità di misura del successo americano, la ricchezza come spartiacque tra realizzazione e fallimento.
 
Per fortuna, in mezzo a cotanto baccanale Martin Scorsese trova il tempo (breve e intenso) per mostrarci l’altro volto della grande illusione americana, il volto più vero, nei cui occhi è già spenta la fiaccola dell’american dream. È il volto dei passeggeri della metro; è il volto di Patrick Denham (Kyle Chandler), l’investigatore federale che ha dato la caccia a Jordan Belfort. Idealmente, noi ci sediamo al loro fianco.