L’anno sta volgendo al termine. Le strade si riempiono di luci natalizie dal lontano gusto psichedelico e l’imbarazzo verso il da farsi per capodanno si fa sempre più pressante (e stressante). Ma al di là delle festività, in  questo periodo, ci sono persone che oltre a preoccuparsi per cosa regalare alla madre, alla fidanzata/o o all’amico/a sentono la necessità di volgere lo sguardo alle spalle e fare i conti con il passato. Tirare le somme dell’annata in parole povere, per controllare se rimane qualcosa di buono o se abbiamo passato un periodo veramente da cestinare. Nel marasma che attornia questa somma di esperienze e vicissitudini, ci sta pure una mini classifica personale della migliore (e peggiore) musica che si è ascoltato, dando vita spesso a dibattiti infiniti con amici dai gusti dubbi: ci sarà sempre il conoscente che celebrerà come disco dell’anno il nuovo di Vasco Rossi o di Miley Cyrus, creando nei vostri animi un arrampicante senso di sconforto che talvolta si tramuterà in violenza.

Ma perché fare classifiche? Settimane fa noi del cARTEllo abbiamo criticato proprio questo metodo di catalogare l’arte, mettendo sul banco degli imputati prevalentemente RS e la sua odiosa vena oramai commerciale, che incita le masse all’omologazione. Quindi perché questo best of?

La risposta arriva da due precisazioni: questa non è una classifica, ma solo una semplice lista senza un ordine gerarchico dei lavori che ci hanno più appassionato. La seconda precisazione rischia di diventare noiosa quindi cercherò di renderla approssimativa. Difatti nello spiegare il perché di una lista, ci dovremmo addentrare all’interno della storia dell’umanità – addirittura – per carpire al massimo il senso dell’esperienza collettiva. Mi limito solo a dirvi un’unica parola: conservazione. Classifichiamo e stiliamo con la speranza di conservare un qualcosa delle nostre vite, cercando di illuminare con nuove conoscenze chi ci sta intorno. Quindi, nel campo musicale, quello che mi appresto a fare arriva a ricoprire la funzione di consigliare nuovi album a voi lettori, oltre al compito di dare un ordine alle nostre memorie. Ordine che ritroveremo sigillato all’interno di queste pagine. Così, dopo il dovuto chiarimento, non resta altro che passare al listone. C’è qualcosa di buono nel 2014 musicale?

La risposta è si, decisamente, anche se a mio avviso siamo su un gradino leggermente inferiore rispetto alla scorsa annata (mancano, per esempio, gruppi come i These New Puritans o i My Bloody Valentine ad alzare notevolmente la media dei 12 mesi). Ma le soddisfazioni sono molte, a partire dai generi. Difatti sembra tornare lentamente una certa furia rock tra i migliori lavori dell’annata. Rock che viene rappresentato prevalentemente da due album monumentali: “Sunbathing Animal” dei Parquet Courts e “Fuck Off Get Free We Pour Light On Everything” dei Thee Silver Mt. Zion Memorial Orchestra. Due opere straordinarie, trascinanti e folgoranti. I Parquet Courts ci abbagliano trainandoci in un calderone che unisce punk e post-punk arrivando sino ad inaspettati risvolti hardcore, mentre i Thee Silver cospirano un’ipotetica enciclopedia post-rock che unisce il blues all’alternative targato anni 90. Ma non finisce qui. Ce ne sono per tutti i gusti. Per i nostalgici sarà una soddisfazione immensa sentire il ritorno degli Shellac, che con “Dude Incredible” tornano a distribuire la furia post-hardcore del santone Steve Albini, una vera e propria divinità per gli amanti del genere (famoso anche per essere un produttore geniale, fautore delle sonorità particolarmente sporche di “In Utero” dei Nirvana, mica roba da niente eh); e “The Best Day” di Thurston Moore, altro idolo della comunità più alternativa del rock, che ritorna con una versione più pulita del noise targato Sonic Youth. Sempre per i nostalgici “To be Kind”, il nuovo incubo avant-rock partorito dalle folli menti del gruppo storico “Swans”, un colosso più che un album. Convince anche il post-rock 2.0 dei Mogwai, che con “Rave Tapes” si aggiornano dando un tocco più dream e kitsch alla loro carriera esaltante. Non potevano mancare nella lista i The Men, gruppo che con soli 5 anni di carriera è divenuto cult e che con “Tomorrow’s Hits” abbandonano il noise-core, loro particolarissimo marchio di fabbrica, per abbracciare un southern-rock maturo, sorta di folk scritto da un Neil Young del futuro. Per i più incazzati è doveroso segnalare “Eighteen Hours Of Static” dei Big Ups e “Try Me” dei Self Defense Family, a mio avviso due piccoli capolavori post-hardcore, provocatori, violenti e ribelli come nella tradizione del genere. Per gli amanti del revival c’è “Plowing Into The Field Of Love” degli Iceage (che strizza l’occhio al post-punk dei Joy Division), lo shoegaze degli Cheatahs con il disco omonimo, il bellissimo “Two” degli Owls che sembra uscito dagli anni 90 (partendo dai Pavement sino ad arrivare ai Modest Mouse) e il sorprendente “Under Color Of Official Right” dei Protomartyr, che suona come speravamo suonassero gli Interpol dopo il capolavoro “Turn On The Bright Lights”, ma sappiamo tutti come è andata a finire. Si confermano anche gli Have A Nice Life, che con “The Unnatural World” tornano alla loro post-gaze oscurao e gotico. Per i fattoni (la categorizzazione è puramente ironica, non prendetemi troppo sul serio) ecco invece gli Earth, gruppo maledetto che con “Primitive And Deadly” unisce la drone-doom alla psichedelica, creando un clima infernale che li mette  in buona compagnia coi lisergici Brian Jonestown Massacre e Flaming Lips (due nomi che non suoneranno sconosciuti, spero). Per i più modaioli segnaliamo “Manipulator” di TY Segall che torna con il suo garage moderno, “Commune” dei Goat (che a tratti ricordano i Cramps, i B-52’s e le Slint creando un rock vintage  innovativo e geniale) e “Tiranny” di Julian Casablancas + The Voidz, che sembra aver trovato una propria maturità al di fuori degli Strokes seppure con numerosi passi falsi e qualche idea da rivedere. Ma le vere sorprese arrivano quando ci addentriamo nel lato più introspettivo del rock. Fanno urlare al miracolo infatti lo slow-folk targato Sun Kil Moon di “Benji” e l’emo/post rock dei The World Is a Beautiful Place & I Am No Longer Afraid to Die, che con “Between Bodies” ci lasciano una vera e propria perla. Due piccoli capolavori, due autentiche pietre miliari dei nostri tempi, che mi fanno abbandonare la sezione rock con il sorriso sulle labbra.

Anche parlando di cantautori si parte da sonorità rock. Jack White porta alta la bandiera del genere , anche se il suo “Lazaretto” non è particolarmente esaltante, anzi direi abbastanza inutile. Passano a pieni voti Beck , con il suo splendido e rilassante “Morning Phase”, Damon Albarn con i suoi robot, l’ex Dinosaur Jr J Mascis con “Tied To A Star” e sua maestà Neil Young con “Storytone”. Ma a sorprendere sono le donne, le poetesse. Si parte con “Where The Wild Oceans End” di Andrea Schroeder (che voce!!!), per passare all’interessantissimo “Burn Your Fire For No Witness” di Angel Olsen che incanta con il suo alt-folk, terminando con “The Double Ep: A Sea Of Split Peas di Courtney Barnett (a detta di molti una nuova next big thing) e il malinconico “Crush Songs” di Karen O.

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