Syd Barrett, il diamante pazzo del rock.

Roger Waters si avvicinò a quella figura ormai vagamente familiare: la zazzera bruna aveva lasciato spazio a un cranio ben rasato e a sopracciglia inesistenti, l’abito bianco atto ad avvolgere la grossa corporatura lo faceva somigliare più a un membro dell’Hare Krishna che al bardo lisergico dell’estate dell’amore.

«Che cosa ne pensi?» si decise finalmente a chiedere il bassista.

«Suona un po’ vecchio».

La risposta di Roger Keith Barrett fu laconica ma, molto probabilmente, non priva di ironia.

 

I Pink Floyd, il gruppo come lui l’aveva concepito non esisteva più. Poteva pure ritirarsi, in pace, ignaro che quella sua ombra così ingombrante si estendesse come un incantesimo benevolo su Wish You Were Here, uscito a settembre di quello stesso anno.

Barrett se n’era andato ben sette anni prima dal gruppo, all’età di ventidue anni, forse aveva già detto tutto, esaurito la spinta creativa come era successo a un altro maudit come Arthur Rimbaud. Eppure The Madcap Laughs e Barrett, i due album solisti del 1970, sembrano raccontare un’altra storia.

 

 

Il ritorno all’innocenza tanto decantato da un’intera generazione sembrava una necessità alle porte di un decennio solipsistico.

Le filastrocche rock del Cappellaio Matto erano state, nel 1967, un balsamo al cuore: i toni fiabeschi e una visione tutta personale delle cose riecheggiarono tutto sommato nel primo album solista, eppure sui brani alleggiava la consapevolezza insostenibile dell’autore di essersi completamente perso o di aver smarrito lungo la strada, tra l’infanzia e l’età adulta, qualcosa di indispensabile.

Forse Syd era stato davvero scaraventato in un mondo dove non riusciva a venire a patti con quelle sue regole terrene, seriose, luogo arido privo di tempo e spazio per il gioco, per l’infanzia, quell’infanzia irrequieta a cui dava voce l’artista in una musica non dissimile da un sogno lucido.

 

Mentre la musica sembrava essersi ammutolita nella sua testa, dal luogo che gli diede i natali, Cambridge, proprio in quel 1975, In Praise of Learning degli Henry Cow provava a svegliare gli animi con la stessa intensità con cui Jim Morrison urlava “Wake Up!” nel 1968 all’Hollywood Bowl: Fred Frith era completamente proiettato nel futuro, l’ex leader dei Pink Floyd non solo aveva costruito la sua breve carriera su una specie di “nostalgia pastorale” ma era ben lontano dal più elementare processo creativo.

Sto percorrendo il sentiero a ritroso…” disse al fotografo Mick Rock nel 1971.

Ed era vero su più livelli: aveva ripreso a dipingere cercando nuovamente un contatto con la propria sensibilità, pensando a quel percorso artistico che l’aveva portato a scrivere canzoni come Interstellar Overdrive, ma dal punto di vista umano pareva rassomigliare sempre di più a Des Esseintes.  

 

Syd Barrett era finito.

Aveva costruito il proprio personale eremo dove era libero di isolarsi e a cui nessuno era concesso accedere. Lungo gli anni si sono susseguite molte speculazioni sulla sua salute mentale: per molto tempo s è parlato di schizofrenia, oggi si dice che soffrisse della sindrome di Asperger e l’uso e abuso di LSD aprì un vaso di Pandora nella psiche dell’artista inglese.

Così quando il nuovo leader del gruppo, Waters, domandò al ragazzo di Cambridge cosa ne pensasse di Shine on You Crazy Diamond, riemerse, in quattro semplici parole, la coscienza di un uomo che, non solo si era fatto veggente ma si era spinto ben oltre il suo tempo trascinando artisti del calibro di David Bowie verso una dimensione astrale lontana dai propositi, seppur buoni, degli ex compagni di gruppo.

Suona un po’ vecchio”.

 

Chissà quante melodie sono marcite nella mente di Syd e quante ne sono state cantate senza voce fino al 7 luglio 2006, quando morì a soli 60 anni.

Artisticamente parlando il trapasso avvenne negli studi di Abbey Road proprio quel 5 giugno 1975, tutto il resto della sua vita da Roger Keith si svolse nel riparo delle mura domestiche mettendo la parola fine a un vero e proprio rinascimento musicale prima dell’avvento del punk.

Tutto il resto è storiografia.

Non sono importanti le congetture, le stranezze, e i motivi che spinsero i Pink Floyd a smettere “semplicemente” di passare a prendere per le prove l’eccentrico amico. La verità riposa nei giochi di parole barrettiani, nella capacità congenita degli inglesi di spingersi oltre il baratro e continuare a inventare nuovi modi di plasmare e raccontare la realtà, negli squarci di bellezza filtrati da una mente brillante in una stagione diversa che sarà tra le poche cose mirabili da conservare di quel secolo incredibile che fu il novecento.

E lui, dall’alto del suo ruolo di pifferaio, fedele al suo fanciullino, lo si può immaginare, parafrasando un famoso verso di Leonard Cohen, davanti al Signore della Musica solo con l’Hallelujah nella sua bocca.