Un punto di vista originale sulla vita di Daniel Johnston, il grande outsider della musica americana.

Ciao, sono il fantasma di Daniel Johnston, e questa è la rievocazione memoriale della sua vita ancora in corso.

Ultimo di cinque fratelli Daniel spiccava nella cucciolata per qualità assolutamente normali, eccelleva nella mediocrità in un modo raramente riscontrabile altrove in natura. La sua famiglia era composta da persone timorate di Dio e gli venne inculcata, sin da subito, una visione utilitaristica della vita e della religione.

Ma avete presente John Lennon? Daniel voleva essere John Lennon eppure aveva il talento artistico di un Robert Crumb, e tutto questo senza il minimo sforzo o quella pratica folle e disperata che è una schiena curva su un tavolo da disegno.

 

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Un giovanissimo Daniel Johnston

 

“L’artista cammina da solo”, il ragazzino di Sacramento, ora reso timido dall’adolescenza, ne è consapevole ma vuole diventare, non sa come non sa quando, famoso.

Laurie Allen è il suo unico legame con quella realtà che sta perdendo con l’infanzia perché “in quell’incubo c’è dentro un sogno, il sogno di una ragazza”.

 

Daniel non è neanche maggiorenne, ma è già una star nel suo liceo. È quel ragazzo che disegna un grande occhio per tutto il campus: la parola fama è scritta sulla fronte e diventa quasi cieco nel tentativo di leggere il suo futuro. Gira da sempre anche moltissimi film che non sono influenzati da nessuno, ed è proprio questo il bello.

 

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L’occhio marchio di fabbrica di Daniel Johnston

 

Segue Laurie ovunque con la cinepresa Super 8: la ragazza è il ventre molle da cui nasceranno moltitudini di canzoni e universi paralleli. Laurie si sposa, ma a Daniel va bene e accetta la vita che di lei gli è rimasta impressa su pellicola, tra le lacrime comprende che ha bisogno del dolore per creare: Orfeo ha deciso consapevolmente di voltarsi, Euridice svanisce in un accordo.

 

 

Daniel è inquieto, non vuole laurearsi, non vuole fare nulla se non cantare e disegnare. Non vuole essere un servitore di Dio. Ha giurato fedeltà al Signore della musica i cui arcangeli gettati sulla Terra hanno l’aspetto dei Beatles.

«Ovunque mi trovi la musica è nel mio cuore», disse un giorno ad alta voce, a me, a me che sono il suo fantasma.

 

Ricordo ancora quando suo padre lo riportò a casa dall’università: gli facevano male le braccia, era la psicosi maniaco depressiva che ci separava inevitabilmente.

Il fantasma di Syd Barrett mi raccontò che gli acidi riuscirono a fottere il cervello del bardo inglese, già compromesso di suo e io, di rimando, mi confidai narrandogli, per filo e per segno, di quando qualche simpaticone, durante un concerto dei Butthole Surfers, mise un acido nel bicchiere di Daniel.

 

 

Momenti di dissociazione a parte la musica di Daniel piaceva a tutti e la distribuiva senza pretesa alcuna se non per il semplice piacere di condividere la propria pelle con qualcuno.

Non ha capacità canore, e lo sa, però possiede quell’incoscienza innocente dei bambini e qualsiasi cosa sgorghi dalla sua bocca è leggera e trabocca di onestà.

 

Ricordo che nel 1983, tre anni prima del tracollo psichico, in occasione di uno special di MTV sulla scena di Austin Dan, non senza una certa furbizia, s’intrufolò per le riprese e si fece filmare durante un suo concerto -con un pubblico entusiasta-, dove presentò i recenti lavori: Yip/Jump Music e Hi, How are you?

 

 

All’epoca lavorava in un McDonald’s che non vedeva sempre di buon occhio l’interesse, ora mediatico, nei confronti del proprio dipendente. Neanche 4 anni dopo, questo ragazzo tanto acclamato quanto emarginato, strafatto di acidi, avrebbe preso un tubo per scagliarlo per ben tre volte sulla testa dell’ex manager Randy Kempertras. Finì in ospedale con una contusione.

 

Eccola lì, l’educazione cattolica, quella visione della vita in bianco o nero che gli avevano ripetuto come un mantra sin da piccolo: si credeva inviato da Dio, col potere di spazzare via tutto ciò che trovava strano, insano e diabolico. E poi ci fu quel Natale su cui alleggiava un certo malessere: voleva purificare i nipoti, così i fratelli lo sbatterono come un sacco di patate sul primo bus. Lo ricoverano perché si è immerso in un fiume cantando tra discorsi deliranti.

 

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Daniel Johnston ai tempi del McDonalds

 

Ma vi ho già raccontato del potere salvifico della musica? Arrivò Jeff Tartakov della Stress Records e spedì tutto il materiale di Dan a Steve Shelley dei Sonic Youth che, di rimando, invitarono l’artista a New York per registrare.

 

«Diventare famoso era il mio destino. E anche essere dannato», mi confidò un’altra volta durante quel 1988 a New York. C’è una cosa che non ti perdona la cultura americana, l’anonimato! In realtà dagli anni ’80, in tutto il mondo, questa colpa non te la espia nessuno, manco Cristo sputato nuovamente tra i comuni mortali. Insomma, c’era tutta ‘sta gente qui tipo Moe Tucker dei Velvet Underground, Jad Fair degli Half Japanese e lui cosa fa? Incasina tutto, litiga con Steve, si mette nei guai, ancora, con la polizia. Di quell’esperienza rimane il legame con Jad e la fama allargata a New York. E poi di nuovo il ricovero perché spaventa una signora lamentosa, e la vuole esorcizzare e lei, giustamente spaventata, si lancia dalla finestra e si rompe le caviglie. Arriva un’altra bordata di farmaci che lo gonfiano e annullano sistematicamente le sue inclinazioni musicali.

 

 

Per fortuna c’è Kurt Cobain che indossa la t-shirt raffigurante l’alieno, uno dei personaggi ricorrenti di Dan, dell’album Hi, How are you?. E la mette praticamente ovunque e questo rende il mio amico una vera stella, di certo non del calibro di Lennon o di Gesù. Col fantasma di Cobain ci parlo ancora perché al suo, di amico, la musica di Johnston piaceva moltissimo anche se gliela aveva fatta conoscere il critico inglese, solo nel ’92, Everett True.

 

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La foto di Kurt Cobain con la maglietta di Hi, How are you?

 

«Credo che l’arte sia sempre stata ispirata dalla bellezza», mi ha rivelato recentemente, dopo qualche tour, tornando a vivere dai suoi genitori. Ma io non ne ho idea, sono il fantasma di un ricordo, una sfilata di fantasia. Penso che esista un’idea di bellezza, come quella che è germogliata tanti anni fa nella sua testa ferita True Love Will Find you in the End.

 

E questo amore potrebbe venire da una compagna, da un figlio, da dei genitori che, con ogni fibra del loro corpo, soffrono e si preoccuperanno fino all’ultimo respiro di Daniel, ma credono ancora in un lieto fine e in quella pace che risiede nel potere taumaturgico della musica.

 

Ciao, sono il fantasma di Daniel Johnston, e tu come stai?