Il capolavoro del grande gruppo inglese compie 30 anni. Riavvolgiamo il nastro e facciamo partire i ricordi!

Siamo negli anni Ottanta e la musica pop è arrivata ormai ad un bivio . Da una parte l’intramontabile pop brillantinato e dell’altro la pruriginosa necessità di cambiare qualcosa.

In questo momento di meraviglioso disordine creativo, i Depeche Mode segneranno per sempre la loro storia musicale.

Nel 1985, a un anno dal precedente album, Some Great Reward, Martin Lee Gore comincia a intravedere l’epilogo dell’era dei sintetizzatori e di gran parte degli elementi che fino ad allora avevano contrassegnato il timbro della band. È il pretesto ideale per la svolta. Così nasce Black Celebration, da molti considerato l’emblema della maturazione artistica dei ragazzi di Basildon.

L’album si colloca nel cupo intermezzo che traghetterà la band presso territori maggiormente inquietanti e malinconici. Alla spudorata spensieratezza degli esordi, inizia a subentrare quella visione pessimistica e fatalistica del mondo che raggiungerà l’apice nei primi anni 90. 

La complicata realizzazione dell’album e la volontà di sciogliere il gruppo durante le malefiche ed estenuanti registrazioni del disco, verrà ulteriormente scossa dalle estenuanti e continue pressioni della casa discografica e dall’ostinata ricerca di un suono sempre diverso da parte di Gore e Alan Wilder. Si racconta che ci vollero tre settimane di lavoro per il perfezionamento di Stripped. Invischiati nella prima delle diverse crisi che marcheranno gli anni a venire, lo stress provocato dall’enorme tour di Devotional Tour e i seri problemi di droga di Dave Gahan che culmineranno nel tentativo di suicidio nel 1996, i Depeche Mode riescono a consegnare nel gennaio del 1986, con oltre quattro mesi di ritardo, Black Celebration ai due co-produttori Daniel Miller e Gareth Jones. Tuttavia, ci vorranno ancora due mesi, durante cui, si dice, Gore avrebbe addirittura pensato di cambiare nuovamente tutto, prima dell’uscita ufficiale. 
Con un lavoro così faticoso e ingombrante, pochi in effetti scommettevano sulla qualità di un album che lo stesso Gahan considerava “quasi maledetto”.

Che qualcosa sia cambiato nella musica e nell’anima dei Depeche Mode, non tarda a manifestarsi. La title track che apre l’opera, premonitrice delle torbide tematiche, rappresenta il manifesto dell’imminente nuova epoca dei Depeche. Una lugubre suggestione elettronica con un inquietante ticchettio di campionatore che non fa presagire nulla di allegro, contaminata da ghigni mefistofelici, è il tappeto sonoro su cui Gahan convoca la celebrazione nera penetrando nelle casse con tutta la sua magnifica glacialità , avvalendosi di sintetizzatori a due canali come l’ARP 2600 per le linee di basso, l’Obhereim e il Roland Jupiter 8. Nei primi due minuti del disco (dove compare campionata la famosa frase di Winston Churchilla brief period of rejoicing“, ad opera di Daniel Miller), già è chiaro il nuovo percorso della band e il climax emotivo che li ha accompagnati nella stesura di questa opera: atmosfere cupe, amori nostalgici o impossibili, assoluta sfiducia nel futuro dell’umanità. 

 

 

 

 

I sussurri malefici e demoniaci percorrono anche il secondo brano, “Fly On The Windscreen”. Che si apre con il primo verso che recita: “Death is everywhere, there are fly on the windscreen”.

Un’ambientazione similare e soprattutto un tetro corredo rendono il brano complementare a Black Celebration. La descrizione di un mondo dove la morte incombe prepotente su di noi, le accidentalità, il destino, la possibilità di essere separati anche domani da forze immanenti si rincorrono tra il desiderio del momento e l’eventualità che tutto finisca in un istante. Conclude la trilogia, (i brani sono infatti legati tra loro), il primo pezzo cantato da Gore, “A Question Of Lust” che con “Here Is The House” è il legame più esplicito con il recente passato della band. Una ballata intensa, cadenzata da scampanellii sintetici e sorretta da un testo struggente. Parallelamente all’evoluzione sonora, infatti, il disco rivela un lato della poetica di Gore completamente diverso dalle prove precedenti. Alle prime canzoni del periodo giovanile, il chitarrista nonché autore riesce a contrappore in Black Celebration quelle amarezze universali che saranno le basi di Violator e Songs Of Faith And Devotion.
Il 1986 è anche l’anno dell’incontro con Anton Corbijn, il fotografo e regista olandese già famoso per aver collaborato con i Joy Division e U2, che diventerà presto un personaggio centrale nell’opera della band. Il nervoso pop di “A Question Of Time“, un autentico classico della band, è l’occasione per Corbijn di gettare i semi dell’immaginario visivo che intende implementare con il gruppo. Ma è la famosa “Stripped”, brano numero sette, ad attirare l’attenzione di Corbjin. La melodia, l’arrangiamento e sonorità quasi orientali convincono fermamente il fotografo e regista a collaborare con una band che ormai ha fatto il grande passo. Stripped conferma la straordinarietà di un album scritto con estremo perfezionismo. Un brano, questo, che potrebbe figurare nel manuale della canzone perfetta grazie al suo maestoso crescendo e all’infallibile ritornello.
L’epilogo, con “New Dress“, sembra preludere ai polverosi ritmi di “Personal Jesus”. Una canzone dove la band si lascia andare alla loro visione politica criticando i mass media e chi li controlla: “Non puoi cambiare il mondo, ma puoi cambiare i fatti, e se cambi i fatti puoi cambiare i punti di vista, e se cambi i punti di vista, puoi cambiare i voti, e se cambi i voti puoi cambiare il mondo

Chiudono l’album  un remix di “Stripped” (“Breathing in Fumes“), una versione alternativa di “But Not Tonight” (brano incluso nella soundtrack di un poco conosciuto film americano, “Modern Girl”) e la bellissima “Black Day”. 

L’idillio creativo di Gore e compagni, iniziato proprio con “Black Celebration”, proseguirà magicamente per molto tempo. Dopo il grande successo di critica e pubblico e le enormi vendite dell’album, i Depeche Mode ritorneranno l’anno dopo con Music For The Masses, che non si discosterà troppo dal disco precedente, e soprattutto, all’alba degli anni Novanta, con un altro capolavoro, Violator. Le crisi del decennio appena concluso eleveranno i problemi in seno al gruppo trasportando gli eventi su piani ben più gravi (l’autodistruzione di Dave Gahan su tutti). Tuttavia Black Celebration rappresenta l’evoluzione di una band che ha scavato nei propri demoni per risorgere in qualcosa di ultraterreno.