Dopo un anno di lunghi addii arriva un 2017 di grandi ritorni, con il rock che finalmente torna ad essere protagonista.

10) Alex G – Rocket

Alex G arriva direttamente da Bandcamp, dove si è fatto le ossa a suon di lavori (sette album in sette anni!) per arrivare (finalmente) al meritato riconoscimento. Rocket è la ciliegina sulla torta che non ti aspetti, mostrando un talento cristallino come quello di Alex Giannascoli che nel giro di 14 canzoni riesce a cambiare continuamente registro, passando dal lo-fi all’hardcore.

 

 

9) Idles – Brutalism

E il post hardcore torna nuovamente in chiave politica, per denunciare un sistema che non se la vede bene neppure in Europa. Non solo Trump insomma, ma il malore sociale dell’Oltre Manica che viene presentato con una ferocia incredibile dagli Idles. Un album brutale nel vero senso nella parola, che usa la musica come strumento di critica proprio in piena etica punk. Senza ombra di dubbio uno dei migliori debutti dell’anno.

 

 

8) Godflesh – Post Self

Mi stupisce in positivo scrivere così tante volte queste due parole nel 2017: industrial e hardcore. E, a sottolineare ulteriormente l’annata d’oro di questo genere estremo quanto necessario (l’industrial) c’è il ritorno di una delle band storiche di questa categoria: i Godflesh. Con Post Self arrivano all’ottavo lavoro della loro carriera, continuando a tormentarci con il loro grande incubo musicale. Spaventosi.

 

 

7) Ryūichi Sakamoto – async

async è un vero e proprio miracolo, un’opera di una purezza commovente. Tornato vincente dalla battaglia contro il cancro alla gola, diagnosticato nel 2014, Ryūichi Sakamoto continua ad essere uno dei migliori compositori al mondo, nella sua opera fatta di sottrazioni ed ombre di personaggi sfuocati, quasi dei fantasmi. Colonna sonora per un film immaginario del grandissimo regista Tarkovskij (e quanto ci sarebbe piaciuto vederli insieme) async rende giustizia a questo signore giapponese che, attraverso un viaggio dentro ognuno di noi, ci mostra la bellezza della vita.

 

 

6) The Magnetic Fields – 50 Song Memoir

50 canzoni, una per ogni suo anno di vita. E’ così che Stephin Merritt festeggia i 50 anni, con questa opera gigantesca che, appunto, ripercorre la sua esistenza e le epoche. Un ritratto dietro a mille ritratti, un calderone di generi e storie che si susseguono senza sosta, come è giusto che sia la vita. Un monumento musicale che si suddivide in cinque dischi, cinque età: infanzia, giovinezza, maturità, età adulta e presente, senza scadere mai nella banale nostalgia ma con uno sguardo lucido sul passato che si fa presente. Di vitale importanza.

 

 

5) Colin Stetson – All This I Do For Glory

Il sax come religione per Colin Stetson, che ne declina ogni variante in questo splendido album. Il risultato è un disco epico, che riesce a prendere ispirazione da Autechre e Aphex Twin (come dichiarato dall’artista stesso) in una formula personale. E, specialmente, originale. Perché il fiato (tanto) di Colin Stetson ci trascina in una musica inaspettata quanto necessaria.

 

 

4) King Krule – The Ooz

Che il cantautorato sia in un vero e proprio momento di mutazione l’avevamo capito da anni. Adesso Archy Marshall, in arte King Krule, ce lo conferma  definitivamente con il suo The Ooz. A 4 anni di distanza dal buono (ma non eccelso) 6 Feet Beneath The Moon il giovane artista inglese torna con un album stupefacente, oscuro come la notte, malinconico come può essere solo il disagio dei 23 anni. Perché a suonare come un miracolo c’è proprio l’età di Archy, che con una maturità stupefacente ci fa immergere per un’ora circa nel suo flusso di coscienza fatto di free jazz, blues, post-punk e molto altro. I generi ad una certa perdono anche importanza di fronte a questo gioiello indimenticabile. E forse sta proprio in questo la forza della gioventù.

 

 

3) Godspeed You! Black Emperor – Luciferian Towers

E a dare un ulteriore scossone al post-rock ci pensano pure i Godspeed You! Black Emperor. Un gruppo storico che, nella sua lunga carriera, ha sfornato più di un capolavoro. Ma che non sembra essersi stancato. Luciferian Towers ne è la riprova, un’opera che ci trascina in un futuro apocalittico ma pieno di speranza. Perché le torri infernali del titolo, il simbolo dell’industria delle anime capitalista, alla fine bruceranno, liberando il mondo dalla sua aridità.

 

 

2) Stabscotch – Uncanny Valley

Senza perdersi in troppe ricerche (lo so, sono pigro) si può trovare questa definizione di Uncanny Valley su Wikipedia :

“Uncanny valley (traduzione: la zona perturbante o valle perturbante) è un’ipotesi presentata dallo studioso di robotica nipponico Masahiro Mori nel 1970 pubblicata nella rivista Energy. La ricerca analizza sperimentalmente come la sensazione di familiarità e di piacevolezza generata in un campione di persone da robot e automi antropomorfi aumenti al crescere della loro somiglianza con la figura umana fino ad un punto in cui l’estremo realismo rappresentativo produce però un brusco calo delle reazioni emotive positive destando sensazioni spiacevoli come repulsione e inquietudine paragonabili al perturbamento”.

Ed è proprio la descrizione perfetta per il secondo album degli Stabscotch, un collage immenso, un cut-up musicale fatto da macchine, da robot che tentano di replicare tutto l’underground. In alcuni tratti sembra quasi di ascoltare una musica (che unisce mathcore, noise, post-hardcore etc) ideata da una macchina e risputata deforme, ripugnante. Eppure si sente il tocco umano in questa opera che assume dimensioni monumentali (100 minuti), si sente il tocco umano nell’urlare gli incubi e l’alienazione, nel riesumare un’epoca passata ma improvvisamente presente grazie all’originalità della scrittura e della destrutturazione. Uncanny Valley, con i suoi 18 frammenti follemente rock, è già un classico. E afferma una cosa molto importante: l’underground è vivo.

 

1) Mount Eerie – A Crow Looked at Me

L’album dell’anno arriva da uno degli artisti più talentuosi di questi 2000. Quel Phil Elverum leader dei Microphones e, adesso, anima del progetto Mount Eerie. Quel Phil Elverum che, nel luglio del 2016, ha perso la moglie, Geneviève Castrée, a causa di un cancro pancreatico. Da qui l’esperienza della morte, quella vera, della scomparsa di chi doveva crescere una figlia nata da 4 mesi e che lascia l’esistenza nel vuoto della quotidianità.

“Death is real
Someone’s there and then they’re not
And it’s not for singing about
It’s not for making into art
When real death enters the house
All poetry is dumb”

E’ con queste parole che si apre A Crow Looked at Me. Ed è proprio con queste parole che l’album diventa immediatamente un capolavoro.

Davanti allo sguardo minaccioso del corvo la musica si svuota definitivamente dell’arte che la muove per diventare emozione allo stato puro. Ogni giorno è illuminante dinnanzi all’assenza e ogni canzone di perdita è anche una canzone d’amore.

Un album che lascerà il segno, specialmente a chi, dalla vita, è stato segnato.

Perchè ognuno di noi ha perso qualcosa e Phil Elverum è qui a ricordarcelo.