Sono le tre del pomeriggio, dalla finestra entrano sole ed aria profumata. Mi trovo inchiodato alla scrivania, sonnolente, mentre scorrono le canzoni di Tyranny, mi rendo conto che per poterle recensire e per poter arrivare in fondo a quella che ha il sapore di una piccola tortura, devo elencarmi mentalmente i motivi per i quali lo stia facendo. Ne trovo due: il primo è che se si vuole scrivere si devono rispettare delle scadenze. Il secondo è che Julian Casablancas, comunque vada, esercita un certo fascino su quanti come me sono nati nei tardi anni ‘80. Ascoltare Is This It durante l’adolescenza può influenzarti, Room On Fire ancora di più. Forse Casablancas gode ancora della luce che riflettono i masterpiece del suo quintetto a distanza di – brivido – più di dieci anni…

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Nel 2009 avvia la propria carriera solista con un primo album, Phrazes For The Young, non proprio indimenticabile ma quanto meno affascinante per la sua aria cupa, la sua copertina incredibile – sorta di Star Trek in chiave sudista – e l’immancabile estetica 80s tanto cara a Casablancas. Sopratutto l’album sfornava almeno un paio di pezzi validi, il singolone 11th Dimension suonato pure nei club, e altri diamanti grezzi come Ludlow Street, impreziositi dal tono abrasivo e affascinante della sua voce.

Torna alla ribalta nel 2014 con una nuova creatura al suo seguito, The Voidz, collettivo di musicisti più o meno noti che lo accompgnano in quello che è il suo secondo sforzo solista: Tyranny, appunto. Di Phrazes rimane la cupezza, ma non si vedono scorci di luce. L’album parte indolente su una sorta di ballad post-chernobyl che indugia su melodie e nenie ripetitive e stagnanti. Poi ci si addentra in territori più hardcore, si alzano velocità e temperatura quando i nostri si lanciano in esperimenti di post-punk sintetico e maligno da scenari post-apocalittici. In questo magma confusionario emerge il singolo Where No Eagles Fly, ma per sentire qualcosa di buono bisogna appellarsi a Human Sadness, dove Casablancas gioca a fare il Lou Reed degli anni zero, cosa che in un modo o nell’altro gli è sempre riuscita. Penso a Hard to Explain, penso a Under Control e vorrei dire che quello che sto ascoltando sia un buon disco, ma non posso. Privo di un filo logico, snocciola canzoni rumorose ma non spregiudicate, suona introverso e imperscrutabile ma non minaccioso, e tocca il fondo  quando scimmiotta gli Strokes più heavy di First Impressions of Earth per farli trascendere in territori proto-hair metal, con tanto di chitarre miagolanti e urli spregiudicati davanti al microfono. Father Electricity, posta a metà esatta del disco, è affascinante col suo andamento da atollo tropicale inquinato, ma la diluizione del veleno in sette minuti e ventiquattro secondi ne vanifica l’effetto. Il disco giunge al suo termine, canzoni come fotocopiatrici si alternano mentre fuori il sole si è affievolito e lo scarico dell’autobus ha neutralizzato il profumo dell’aria.

Il tempo è inarrestabile ed il suo passare ineluttabile; sopravvivergli è un arte.