Il nostro ultimo saluto a Lou Reed.

Un mese. Un mese per convincermi a scrivere questo articolo. Perché vedete, avevo un pò di paura, di timore, a scrivere di Lou Reed.

Paura mischiata a tristezza, quella tristezza che attanaglia quando qualcuno di importante se ne va, e hai bisogno di un pò di tempo per metabolizzarla, per chiarirti le idee. Beh, devo essere sincero, le idee ancora non sono poi così chiare. Sento ancora quella notizia improvvisa circolarmi nella testa, una coltellata in un tranquillo pomeriggio di una insospettabile domenica di ottobre (il 27, per essere precisi).

Le immancabili lacrime sgorgarono dai miei occhi, perché non solo se ne era andata una leggenda della musica, ma anche una parte della mia vita. Il 27 ottobre mi abbandonai alla nostalgia, ritracciando tutte le parti della sua carriera e unendo i puntini delle mie esperienze, che spesso hanno avuto come colonna sonora proprio le composizioni del cantautore americano.

 

Lou Reed 4

Lou Reed al Pistoia Blues

 

Una notte intera, una notte insonne trascorsa ad ascoltare la discografia essenziale di Lou, una notte trascorsa a ricordare. Ricordare che Lou Reed è stato il primo poeta maledetto del rock, il primo a portarlo verso il lato oscuro, a fuggire dai testi adolescenziali di tutta la musica dell’epoca; è stato il primo grande sperimentatore, visto che con i Velvet Underground ha creato forse il movimento più influente di sempre, dando via al noise rock e a tutti i suoi rami; è stato il primo grande animale da palcoscenico, con la sua indole trasgressiva e mai banale.

 

Ma non è della sua biografia che voglio scrivere. I grandi artisti, come le grandi opere, sono ardui da ricordare basandoci sulla loro vita, proprio perché ognuno ne ha una propria idea personale, una prospettiva diversa per ogni persona. Quindi Lou Reed, come tutti i grandi, arriva a scindersi in migliaia, milioni di personalità diverse. Ed è della mia visione che voglio parlare, tornando così a quella fatidica notte. Una notte che mi assorbe nel suo passare, tra infanzia e adolescenza, tra baci e ferite, amicizie e follie, passato e presente, futuro, se esiste veramente. Una notte che mi catapulta in una vecchia macchina di molto tempo fa, guidata da mio padre, in cui suona una musicassetta (sì, musicassetta) in cui un cantante che non conosco neanche fa: “Doo doo doo, doo” e io cinquenne, trascinato dal ritmo della musica, osservo la strada che sfreccia davanti ai miei occhi.

 

Lou-Reed

 

Un cantante che a 10 anni riconoscerò poi in quel Lou Reed che canta nei Velvet Underground, quei Velvet Underground della famosa copertina della banana, famosa copertina della banana in cui qualche altro anno avanti riconoscerò un certo Warhol, e tutta la sua arte geniale.

 

Un compagno più che un album, con Sunday Morning a ritmare pomeriggi noiosi e malinconici, I’m Waiting For The man a trascinarmi attraverso lunghi viaggi notturni in macchina, Femme Fatale a farmi pensare a quella ragazza dalle occhiaie perenni, Venus in Furs ad ipnotizzarmi con la malattia che attraversa il suo testo e le sue note rivoluzionarie, Heroin e All Tomorrow’s Parties inni di ogni momento onirico ed epifanico teletrasportato nelle nostre menti dalla droga e dall’alcool (droga tanto amata da Lou, troppo).

 

Ho amato con Pale Blue Eyes e Coney Island Baby, ho chiuso gli occhi con Caroline Says e Street Hassle, ho schiacciato l’acceleratore con Sweet Jane ,Vicious e I Heard Her Call My Name, ho pianto con I Found a Reason e Perfect Day (per non parlare della bellissima Oh! Sweet Nuthin’) , ho cantato a squarciagola con Walk on the Wild Side e Satellite Of Love, trascorso momenti spensierati con Afterhours, mi sono assordato con Metal Machine Music (un preambolo dei Sonic Youth), ho riso con il live Take No Prisoners, in cui le canzoni vengono portate all’esasperazione dal monologo isterico di Lou, ho trovato la pace dei sensi con Ecstasy e mi sono pure incazzato ascoltando alcuni album magari non all’altezza del nome che portavano in copertina.

 

Lou Reed 2

La copertina del live album di Lou Reed, Take No Prisoners

 

Questo è il mio Lou Reed, questa è la persona che ha attraversato ogni periodo della mia vita con almeno una canzone significativa. E continuo ancora a vagare nella notte, in cui rivedo il volto dei mie genitori tornati per un momento giovani, appena maggiorenni, che ascoltano per la prima volta Transformer, rivedo il fantasma di momenti tristi e felici passarmi davanti agli occhi, camminate in zone selvagge e non, emozioni.

 

Mi fermo un attimo e arrivo quasi al culmine della storia, quel penultimo ricordo che precede la sua morte. Quel Pistoia Blues del 2011, dove me ne stavo seduto in prima fila a tracannare birra e ad osservare pieno di emozione le movenze del Rock’n’roll Animal, quell’animale che sembrava scomparso data l’età. Ed è proprio con questa immagine che lo ricordo: quasi immobile sul palco, una statua fatta di musica e di ricordi, una vita, anzi mille vite memorabili alle spalle. Le nostre vite, ognuna diversa, come il ricordo che abbiamo di lui. Un ricordo destinato a non morire mai, perché lassù nell’etere un satellite di amore ti trattiene al suo interno, sparando segnali della tua musica verso le antenne dei nostri cuori. Grazie Lou.