Ok, le vacanze sono finite. Inevitabilmente rientriamo a lavoro e, mentre ricordiamo la calda temperatura di agosto e i divertimenti ormai passati, ci lasciamo invadere da sentimenti tristi e nostalgici. Ma si dovrà pur fare qualcosa per fuggire a questa debacle emotiva,no? Beh, io mi sono sentito Mac Demarco. E, ve lo giuro, ha funzionato. Sorpassata l’introduzione vacanziera (e, a dir la verità, abbastanza inutile) è doveroso cominciare a parlare del disco (con argomenti leggermente più utili). E lo faccio con un’altra mini introduzione . Sprecando due parole per il genere inventato dal nostro genietto: il jizz jazz. Girovagando per la rete ho scoperto giorni fa che lo stesso termine viene usato per descrivere quelle canzoni di cattivo gusto usate nei porno (senza dimenticarci che attorno alla parola jizz ruota un intero sito dedicato al genere, visto il significato di essa). Quindi, nella mente dello stesso Mac, si aggira l’idea di una musica sconcia di pessima qualità, ma incredibilmente sexy ed eccitante. In parole povere, abusando del gergo degli universitari americani, un vero e proprio eargasm.

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Una definizione estremamente provocatoria e simpatica quella dell’artista canadese 24enne che fugge dai paroloni usati dai suoi colleghi, usando molta ironia. Anche perché la sua non è assolutamente musica di bassa lega. Anzi. I suoi sono jingle-jangle funk e a tratti tropicali, che abusano dello wah e si allacciano ad un’etica garage, creando un nuovo modo vintage e decadente di fare indie. Rinnova la musica ispirandosi alla lezione dei grandi cantautori lo-fi del passato (come il suo idolo Jonathan Richman dei Modern Lovers o Calvin Johnson dei Beat Happening) prendendogli in prestito le chitarre ripetitive e una struttura delle canzoni estremamente semplice e infantile. Semplice ma non immediato. Difatti al primo ascolto può anche risultare oscuro il suo talento. Ma sentiamo lo stesso il bisogno di premere il tasto repeat, e veniamo lentamente risucchiati all’interno delle sue (apparenti) filastrocche, divenendone dipendenti. Come il singolo dell’album, “Passing Out Pieces” (guardatevi anche il video per capire il tasso di genialità e follia dell’artista) un indie (?) nostalgica e allucinata che si tramuta in capolavoro al terzo ascolto circa, costringendovi ad un bis senza via di uscita. O la titletrack “Salad Days”, un’inebriante cantilena dilaniata dagli effetti della chitarra di Mac che supera a malapena i due minuti e che difficilmente dimenticherete, passando poi all’immobilità malinconica di “Blue Boy”, l’hangover di “Goodbye Weekend”, la pseudo tropicale “Let Her Go”, la romantica “Chambler Of Reflection” attraversata da un synth molto demodè per concludere il tutto con “Jonny’s Odyssey”, che sembra arrivare direttamente dal talento di un Elvis Presley sempre vivo che si diverte nelle spiagge di qualche introvabile località balneare a scrivere canzoni di una modernità immensa. Sì, perché Mac Demarco è un artista estremamente (post) moderno. Pur prendendo ispirazione dalle basi garage, proto-punk e lo-fi del passato (e si potrebbe facilmente parlare di molti altri generi) riesce ad essere estremamente fresco e a suonare sempre come una novità, qualcosa di mai sentito prima, riuscendo così a mettere d’accordo l’ascoltatore meno pretenzioso e il critico più incallito. Ironico ma maturo, semplice ma impegnato (senza dimenticare grandi capacità da showman) Mac Demarco si candida ad essere il grande cantautore della nostra generazione, aprendo la strada alla musica del futuro. Un futuro roseo.

A questo punto le vacanze possono anche fottersi, c’è “Salad Days” a sostituirle. Buon ascolto…