Endless River è il nuovo album dei Pink Floyd, una deludente operazione nostalgia che lascia l'amaro in bocca per la sua mediocrità.

“Robaccia…senza senso dall’inizio alla fine…”

Roger Waters a proposito di The Division Bell

 

Senti questa. Me ne sto seduto sulla poltrona di camera mia, ho appena finito di ascoltare il nuovo album dei Pink Floyd e, con l’amaro in bocca, sono costretto a dichiarare che è totalmente inutile, privo di qualsiasi senso. Avevo già qualche presentimento, quando mesi fa venni a sapere (inizialmente esclamando) la notizia. Poi il teaser del singolo, e i presentimenti si tramutarono immediatamente in certezze. Naturalmente senza troppo entusiasmo mi sono buttato all’ascolto appena ho potuto, e cosa hanno sentito le mie povere orecchie? Fantasmi/echi del passato che si rincorrono in continuazione, tragiche varianti della chitarra di Gilmour, tintinnii strumentali dalla dubbia ispirazione, idee che tendono, nel grafico del tempo, ad assopirsi insieme all’età di chi suona. Insomma, un grande ricettacolo degli ultimi lavori del gruppo (e se li hai sentiti sai di cosa sto parlando…se non li hai sentiti smettila di leggere).

 

E vuoi sapere una cosa? Non sono neanche incazzato ma totalmente calmo e tranquillo, perché in verità questo nuovo album dei Pink Floyd non l’aspettavo per niente. Non dirmi che tu attendevi tremante l’uscita di questo album? Te ne stavi seduto a casa aspettando il passare dei giorni e segnandoti il tempo mancante all’uscita nel calendario come facevi fino a 10 (anche 20) anni fa? Nah, non ci credo. Non stiamo qui a raccontarci balle. Il fatto è che più nessuno lo fa, fidati. Nulla. Nada. Oscurità totale. E questo perché l’avvento di nuovi media come internet ha eliminato la magia, l’adrenalina nello scartare il cellophane attorno ad un cd o vinile che aspettavamo da molto. Adesso tutto è accessibile immediatamente, ora, subito. Ma qualcosa di umano c’è pur sempre rimasto, un qualcosa che porta a farci delle domande riguardo i nostri idoli abbandonando tutto questo cinismo. Cosa succede? Eppure stiamo parlando dei Pink Floyd, il gruppo che ha cambiato molte delle nostre vite. Ci aspettavamo questo passo falso? La risposta purtroppo è sì. Ma perché?

 

Nonostante tutto mi sento in dovere di fare una piccola divagazione in onore dei nostri dinosauri del rock. Difatti, per me i Pink Floyd sono stati probabilmente il gruppo più importante della vita, e questo lo è (e lo sarà sempre) per migliaia di persone di qualsiasi età. Si va dal sessantottino malinconico al teenager neofita, che si introduce così verso la storia della musica. Io la mia esperienza con i PF me la ricordo benissimo e comincia quando avevo circa 4 anni, forse 5, quando mio padre per farmi addormentare mi sussurrava Goodbye Cruel World (sicuramente una canzone dal tema non molto felice ma che si adatta perfettamente per una ninna nanna). E da lì in poi è stato amore a primo ascolto, con un repeat ossessivo di The Wall e una venerazione religiosa verso Dark Side Of The Moon, Atom Heart Mother, Wish You Were Here e Animals (per non parlare del periodo barrettiano, scoperto solo anni dopo). Tutti questi dischi si possono tradurre in qualcosa di indescrivibile a parole, che va dalla più semplice emozione alla vera e propria illuminazione. Un movimento che ha attraversato epoche e generazioni diverse, raggiungendo l’apice negli anni 70, e per questo li ringraziamo. I problemi sono cominciati negli anni 80. Roger Waters abbandonava il gruppo lasciando come ricordo The Final Cut e da lì è cominciato un vero e proprio declino musicale, di cui si ricordano solo sporadiche soddisfazioni.

 

Endless River è figlio di quel periodo. Ad essere precisi è figlio di The Division Bell, ultimo album dei Pink Floyd, registrato nel 1994. Difatti il nuovo album non è altro che una raccolta di scarti della già poco felice penultima uscita floydiana (e lo potete capire leggendo le parole di Waters all’inizio dell’articolo). B-sides, piccoli tagli, vecchie sessioni, scene eliminate di un passato non troppo entusiasmante. Ed è da qui che comincia la futilità di Endless River. Una futilità che, inevitabilmente, va a sfociare nel dubbio verso gli intenti degli artisti. Cosa hanno voluto fare i Pink Floyd con questo album? Perché tirare fuori dopo 20 anni una raccolta di canzoni (quasi tutte strumentali) tagliate da un lavoro poco osannato e ormai dimenticato? Un addio malinconico ai fan? L’ultimo saluto a Richard Wright? Puro e semplice business? Purtroppo tendo verso l’ultima opzione, trovando abbastanza dubbie le prime due ipotesi. Che poi volenti o nolenti si tramuta tutto in questo, nel perseguimento dell’adorazione del dio denaro, nell’incasso immediato di una quantità immensa di moneta. Le case discografiche hanno urgente bisogno di uscite ormai, sentendosi sempre più minacciate dal mercato nero dei download, quindi si tende sempre più verso il volubile, l’inconsistente. Ormai fare arte è un vero e proprio lavoro con un business dietro, e l’anima delle opere perde sempre più la propria forma, divenendo pallida e quasi invisibile.

 

Detto questo non resta altro che addentrarsi nell’orbita dell’album. La prima cosa che salta all’occhio è la pessima copertina (un patetico tentativo new age), e sapere che è stata curata dallo storico studio grafico Hipgnosis (quello del compianto Storm Thorgerson, autore delle copertine più belle del gruppo) sicuramente non aiuta (sigh). Un’immagine evocativa di un uomo che naviga attraversando le nuvole su di una barca, spiritualismo e psichedelia riciclati banalmente (sicuramente il peggior artwork floydiano). Poi la musica comincia e ci ritroviamo davanti ad una serie di (non) canzoni, per l’esattezza 18 temi che svariano nell’arco di tutta la carriera dei Floyd, un piccolo riassunto pensato per l’ascoltatore meno smaliziato. E direi poco riuscito.

 

Si passa dai rimandi verso Shine On You Crazy Diamond di It’s What We Do alle atmosfere vagamente in stile Dark Side di Sum e Skins (figli deformi del capolavoro del 73). Unsung, Allons-Y e Surfacing sono solo sterili esercitazioni chitarristiche di Gilmour (con la seconda somigliante a qualcosa di già sentito all’interno di The Wall..) e Autumn 68 cerca di essere un seguito ideale (almeno nel titolo) del capolavoro tratto da Atom Heart Mother Summer 68 (avvicinandosi all’eresia). Addirittura c’è anche l’intervento di Stephen Hawking (???), che in Talkin Hawkin (quanta originalità) fa una piccola riflessione sulla comunicazione verbale. Tutto si conclude con Louder Than Words, l’unica dell’album ad avere una forma della canzone compiuta.

 

Ma i problemi arrivano subito dal primo minuto, con un caramelloso ritornello natalizio (mi immagino David Gilmour cantare la traccia nella sua mega abitazione con addosso un golfino vintage con sopra delle renne scartando i regali portati dall’uscita del nuovo disco) e buonista che aumenta il tasso iperglicemico nel sangue, come il video che è una vera e propria mostra delle banalità (stessa cosa per il testo d’altronde, alcune piccole citazioni tradotte: “siamo qui per la corsa”, “questa cosa che chiamiamo anima è lì che palpita più forte delle parole” etc…) con le sue immagini commoventi e politicamente corrette. In parole povere ci troviamo di fronte ad un lavoro privo di spessore, di idee, di mordente. Suona come un cd ambient in collisione con gli anni 80, un “Cafe del Mar” reinterpretato dai Pink Floyd. La chitarra di Gilmour sembra stanca, e il tutto sembra legato ad un’epoca ormai passata da troppo tempo, impossibile da contestualizzare (senonché nei nostri cuori). Un piccolo incubo ad occhi aperti per i veri fan del gruppo (eppure l’album è stato concepito proprio per loro, sembra).

 

Ma abbandoniamo le polemiche e i dibattiti, che ad un certo punto diventano sterili e insignificanti. L’unica cosa certa è che, al termine dell’album, rimane al nostro interno un vuoto immenso, che “palpita più forte delle parole”, e questo è tutto.

C’è chi addirittura l’ha chiamato capolavoro questo Endless River, c’è chi invece, come me, non ha saputo trovare niente di buono all’interno dell’opera, come del resto il vecchio Roger Waters con The Division Bell (a mio avviso sicuramente migliore rispetto a questa ultima fatica di cui è padre, e con questo dico molto). Al di là di tutto, di opinioni, di gusti e ideali, rimane solo un quesito che probabilmente rimarrà irrisolto: dove sta andando la musica? E, specialmente, perché persone come me si vedono costrette a criticare così il gruppo con la G maiuscola, il gruppo più importante della propria vita?