La storia della Rosa della Vittoria.

Questa è la storia di una bambina e di una rosa. 

Questa è la storia dei Sigur Rós.

 

Raccontare la storia dei Sigur Rós non è facile. Non è facile perché è una storia lunga e che si compone di migliaia di elementi. Non è solo musica; è natura, è spiritualità, è magia, è un racconto che proviene da una terra remota, l’Islanda. Non esiste altro gruppo più legato alla propria terra d’origine come lo sono i Sigur Rós. È un legame difficile da spiegare ma è onnipresente in ogni parola e in ogni suono; basta premere play su una qualsiasi delle loro canzoni e la prima sensazione è quella: Islanda. Islanda, luogo e sensazione.

 

È stato lo stesso Jón Þor Birgisson, a noi conosciuto come Jónsi, voce della band, ad affermare in più occasioni il legame inscindibile che lo lega alla sua terra, rifugio e principale fonte d’ispirazione per la musica. L’Islanda è la terra in cui il ghiaccio e il fuoco si incontrano e così è la musica dei Sigur Rós, un incontro tra melodie frastornanti e dirompenti, talvolta inquietanti a cui si intervallano melodie di una sensibilità e di una delicatezza disarmanti. Elementi contrastanti che si scontrano per creare melodie con un impatto emotivo ed una spiritualità travolgenti.

 

Sono già passati 20 anni da quando i Sigur Rós hanno fatto la loro prima apparizione sulle scene, sono entrati piano, con passo timido ed insicuro e sono arrivati oggi ad essere una band affermata con alle spalle una discografia unica nel suo genere.

 

Sigur Ros 1

Sono già passati 20 anni da quando i Sigur Rós hanno fatto la loro prima apparizione sulle scene

 

Niente è lasciato al caso per questa band dotata di una straordinaria intelligenza emotiva. I Sigur Rós nascono nel 1994, quando Jónsi Birgisson, Ágúst Ævar Gunnarsson e Georg Hólm decidono di fondare una band; il nome sarà quello della nipotina di Jónsi nata negli stessi giorni, Sigurrós “Rosa della Vittoria” (sull’origine del nome ci sono differenti racconti, alcuni sostengono che Sigurrós sia la nipotina di Jónsi, altri la sorellina).

Una bambina, una rosa, una band.

 

Niente di più significativo per sancire la nascita di questa band; la nascita di un piccolo essere umano visceralmente legata alla nascita di una piccola creatura nordica, i Sigur Rós.

 

I Sigur Rós godono fin da subito di una madrina d’eccellenza, l’immensa Björk, che inserisce il loro primo singolo, Fljúgðu in una raccolta da lei curata per festeggiare i cinquant’anni di indipendenza dell’Islanda dalla Danimarca. Se ciò fosse successo negli USA e al posto di Björk e i Sigur Rós ci fossero stati un qualsiasi Jay-Z con la Rihanna di turno, il successo della nuova stella del pop sarebbe stato garantito. Ma qua non siamo negli USA, siamo in Islanda, un paese remoto, ai confini del mondo, poco più di 330.000 abitanti e una densità di 3 abitanti per km quadrato. No, qua non siamo negli USA (per fortuna) e occorre fare molta più strada per emergere.

 

 

Ci vogliono 3 anni prima che si senta di nuovo parlare dei Sigur Rós, 3 anni serviti per la scrittura del loro primo album, pubblicato nel 1997, Von. Von significa “speranza”; chissà in cosa speravano i Sigur Rós quando poco più che ventenni hanno pubblicato questo album. Von è un album molto grezzo se paragonato agli album successivi, sebbene si capisca da questa prima creatura che avanza timidamente quanto potenziale ci sia nella band. Von è il modo in cui questi strani ragazzi islandesi si presentano al mondo, un inizio oscuro e talvolta inquietante con i 10 minuti di Sigur Rós totalmente privi di cantato e il lento incedere della successiva Dögun, in cui compaiono i primi vocalizzi di Jónsi; una lenta nascita che ci regala la meravigliosa voce di Jónsi quasi come fosse uno strumento musicale che si integra agli altri, un’estensione della musica stessa.

 

Von contiene pezzi iconici che ancora oggi fanno parte della scaletta della band: Myrkur, brano ritmato, ipnotico e travolgente, Haffssól, che inizia con echi lontani per poi avvicinarsi in modo incalzante alle orecchie dell’ascoltatore e Von, la title-track e forse miglior brano dell’album, un preludio di ciò che saranno i Sigur Rós, un primo incontro malinconico con la voce eterea ed elegante di Jónsi, che diventa un tutt’uno con la musica, che ti avvolge e ti stravolge. Pezzi iconici che si intervallano a momenti di caos e disorientamento per orecchie che si approcciano per la prima volta ai Sigur Rós: 18 sekúndur fyrir sólarupprás (18 secondi di totale silenzio), Mistur, Leit að lífi, fino alla traccia finale Rukrym (contrario di Myrkur), 6 minuti di silenzio per poi partire con Myrkur suonata al contrario.

 

La strada per la band è ancora in salita e per i primi anni il disco si limita a rimanere un piccolo tesoro per il popolo islandese, un vortice di musica, una ventata gelida come il ghiaccio e prorompente come il fuoco che percorre la Hringvegur, l’anello stradale che attraversa l’intera isola per 1339km. Ci vorranno diversi anni prima che il tesoro di Von venga svelato al resto del mondo.

 

 

Nel frattempo la Rosa della Vittoria apre le sue porte ad un nuovo membro che si inserirà perfettamente nella macchina Sigur Rós, Kjartan Sveinsson, polistrumentista islandese ed unico membro ad aver studiato musica. Si sa che quando soffia il vento del nord porta sempre cambiamenti, cambiamenti che rallentano i lavori per il secondo album della band: il batterista Ágúst Ævar Gunnarsson lascia per intraprendere la carriera di grafico e al suo posto arriva Orri Páll Dýrason. La rosa è ormai composta e pronta a sbocciare. I lavori per il secondo album proseguono, «è un buon inizio», dicono…

 

È a fine anni ’90 che esce Ágætis byrjun (“un buon inizio”), forse uno tra i migliori album della band. Un buon inizio, quasi come a dire che da ora tutto ricomincia, che Von era un embrione, che Sigurrós è cresciuta e cammina da sola, che la rosa ha messo la sue radici, ma solo adesso è pronta a sbocciare in tutta la sua bellezza. Ogni brano è un capolavoro, non c’è parola più adatta. Intro è l’ingresso, entriamo a passo incerto in un mondo sconosciuto che si schiude in tutta la sua particolarità di fronte a Svefn-g-englar, un brano dal fortissimo impatto emotivo difficilmente descrivibile a parole. Starálfur, Flugufrelsarinn, brano dalle contaminazioni Radiohead, Ný batterí, suonata con un cembalo trovato per strada schiacciato da una macchina, Viðrar vel til loftárása e la stessa Ágætis byrjun sono brani di una sonorità unica e di una spiritualità difficile da comprendere ad un primo ascolto.

 

 

Servirebbero nuove parole. Miliardi di nuove parole da utilizzare per descrivere questo album con la magnifica Olsen Olsen che svetta ed esplode come un vulcano islandese dal nome incomprensibile. È vero, spesso i nomi islandesi sono incomprensibili, ma non è questo ciò che conta, non sono le parole e non è la grammatica, sono le emozioni. I Sigur Rós sono una band emozionale per cui le parole nella loro accezione linguistica non sono importanti.

 

Inventare nuove parole d’altronde è una specialità dei Sigur Rós, che spesso abbandonano l’islandese, lingua già di per sé misteriosa ed affascinante, per cantare in vonlenska (“hopelandic” in inglese), lingua completamente inventata con lo scopo di abbandonare i significati intrinseci delle parole e far sì che anche la voce diventi uno strumento musicale, una lingua concettuale che riesce ad esprimere miliardi di emozioni più di quanto non facciano le semplici parole.

 

In questo album il legame con l’Islanda è forte e viscerale, è ovunque, si sente, si percepisce e quasi si tocca. È un paesaggio musicale in cui musica e voce hanno il potere di trascinarci e risucchiarci a migliaia di km dalle nostre case, in un luogo magico senza spazio né tempo. Questa volta l’album rompe violentemente gli argini islandesi e sbarca in tutto il mondo riscuotendo successo ovunque. Le melodie celestiali dei Sigur Rós arrivano alle orecchie di Thom Yorke che vuole la band come supporter in tour. Ágætis byrjun, un grande tesoro racchiuso dentro un piccolo feto con ali d’angelo illuminato da una fioca luce bianca.

 

Sigur Ros 2

Dopo il capolavoro Ágætis byrjun, gli Sigur Rós hanno supportato in tour i Radiohead

 

Quando una nuova band cattura la tua attenzione non sai mai cosa aspettarti. Cammini in punta di piedi in un lago ghiacciato, potresti arrivare in fondo e lasciare intatta la magia che si è creata intorno a te oppure potresti fare un solo e minuscolo passo falso e distruggere tutto irrimediabilmente. I Sigur Rós sono appena arrivati e hanno alle spalle – per dirlo in islandese – un ágætis byrjun, un buon, anzi ottimo inizio. Sarà la fortuna del principiante? E se il prossimo album fosse un fiasco? E se non ci fosse un prossimo album e i Sigur Rós fossero stati solo un meraviglioso lampo di luce nel cielo, un’aurora boreale della durata di pochi secondi?

 

È il 2002 e fra gli scaffali dei negozi di dischi spunta un album: copertina bianca, due grosse parentesi e una semplice scritta: Sigur Rós. La tracklist non svela niente di più: untitled 1, untitled 2, untitled 3, e così via, 8 pezzi senza titolo. I Sigur Rós sono tornati. La bambina continua a crescere e la rosa ha creato tanti minuscoli boccioli pronti a sbocciare maestosamente.

Due parentesi, niente di più, due parentesi che racchiudono tutto. A volte non leggiamo nemmeno le cose scritte tra parentesi perché non sembrano importanti. Ma i Sigur Rós stravolgono tutto, si sa; la normale concezione della musica e della parole non conta, e queste due parentesi racchiudono un discorso lungo 71 minuti e 10 secondi, un discorso leggero e quieto capace di cambiare bruscamente rotta e diventare struggente e graffiante.

 

( ) è diviso in due parti intervallate da 36 secondi di puro silenzio, una pausa necessaria per passare dalle atmosfere più rilassate dei primi 4 pezzi a quelle più malinconiche dei 4 pezzi finali. Tutto l’album è cantato in vonlenska. Le tracce non hanno nome e vengono identificate con i nomi che i membri della band usano per distinguerle: La prima canzone, Attaccamento (in collaborazione con la madrina Björk), La canzone della morte, La canzone del nulla, e così via.

 

 

I primi 4 brani ti cullano trascinandoti in un mondo lontano, forse è l’Islanda o forse è ancora più lontano. C’è sempre quella magia, quella sensazione che ovunque tu sia tutto si annulla, tutto diventa silenzioso, tutto diventa niente, un niente che ti circonda e c’è solo la musica, quella musica per cui servirebbero altri milioni di nuove parole.

 

36 secondi di silenzio e scende la notte, Álafoss, un secondo inizio, lento e misterioso. Questa volta Jónsi e soci ci portano in una dimensione parallela e ancora più lontana, che ci accompagnerà per tutti e 4 gli ultimi pezzi dell’album. La settima traccia, Dauðalagið, è la più lunga, un lento e drammatico crescendo.

( ) è un disco complesso ma allo stesso tempo puro, che conferma di nuovo che i Sigur Rós sono qualcosa di unico nel panorama musicale, una piccola pietra preziosa, una rara specie animale da preservare e curare.

 

3 anni dopo il successo di ( ) i Sigur Rós tornano con un nuovo album per la prima volta sotto una grande major, la EMI. Takk… è un album che si avvicina a sonorità più pop ed accessibili, per quanto la musica dei Sigur Rós possa essere pop ed accessibile. Il singolo di lancio è Glósóli anche se il brano più conosciuto di questo brano è senza dubbio Hoppípolla, un brano perfettamente costruito dagli accordi di piano iniziali fino all’esplosione finale, un brano che dovrebbe rimanere immacolato e che invece è uno dei più usati ed abusati, dai promo sportivi fino all’orchestra di Sanremo 2010. Takk… nella sua spensieratezza ricorda quasi il timido arrivo della primavera dopo il gelido inverno di ( ). Melodie romantiche e gioiose intervallate da crescendo di impetuose chitarre, per ritornare poi a momenti di quiete e silenzio.

 

 

Durante il 2006 la band è impegnata in un lungo tour che raggiunge ogni angolo del mondo, dal Canada al Giappone. Dopo mesi lontani da casa è ora di tornare, è ora di ricongiungersi alla madre terra. Il 2007 è un anno ricco di progetti ed è l’anno del ritorno a casa. Esce Hvarf-Heim, (hvarf “rifugio”, heim “casa”). Un album doppio che contiene 3 brani inediti, tra cui Salka brano di apertura e dolce ninna nanna, e 8 ri-arrangiamenti di brani già noti. Ri-arrangiamenti che stravolgono le canzoni per come le conoscevamo, a sottolineare quante sfaccettature possa avere un solo brano se a lavorarci sopra sono i Sigur Rós.

 

In contemporanea all’album esce un nuovo e straordinario progetto: Heima, un resoconto del ritorno a casa dei Sigur Rós, un tour estivo che tocca diverse parti dell’Islanda. Piccoli concerti donati al popolo islandese. Mai come in Heima possiamo apprezzare la completezza dei Sigur Rós e il legame inscindibile con la loro terra. Con Heima capiamo pienamente quanto nei Sigur Rós la musica, il cantato e la natura siano un unico linguaggio. Con questo documentario la musica dei Sigur Rós acquisisce la sua immagine definitiva. La musica incontra la natura e le parole si scontrano con immagini perfettamente cucite su di esse. Heima è l’Islanda raccontata dai Sigur Rós.

 

Sigur Ros 3

Una scena da Heima

 

In seguito all’uscita di Hvarf-Heim ed Heima si sparge la voce che i Sigur Rós stiano lavorando ad un nuovo album. Si parla di un album in inglese con uno stile decisamente pop. Með suð í eyrum við spilum endalaust esce nel 2008 e smentisce ogni supposizione; rimane l’islandese e benché alcuni brani abbiano tonalità più orecchiabili e tendenti al pop il marchio Sigur Rós rimane sempre coerente a se stesso e inconfondibile. Con un ronzio nelle orecchie suoniamo senza fine, e così è, un album senza fine, un viaggio, un percorso a tappe tra brani ritmici ed allegri che ricordano canti popolari come Gobbledigook , e puri  momenti di spensieratezza come Inní mér syngur vitleysingur. Resta comunque lo spazio per quella delicata malinconia che ritroviamo in Góðan daginn e Festival. Með suð í eyrum við spilum endalaust è l’estate dei Sigur Rós.

 

Ed è proprio vero che i Sigur Rós continuano a suonare senza fine. Sono passati più di 10 anni, Sigurrós è ormai una bambina grande che gira per il mondo e la rosa è sempre più bella e rampicante, ha ormai messo radici ovunque e inaspettatamente sopravvive nonostante la sua delicatezza; resiste a tutto pur subendo qualche duro colpo. L’Islanda è una terra ostile in cui domina la natura e se un geyser esplode o un vulcano erutta lo stato naturale delle cose può mutare irrimediabilmente.

 

 

È il 2012 ed esce Valtari, sesto album della band, album che ribadisce lo stile unico dei Sigur Rós, uno stile coerente ma mai scontato o ripetitivo; un album che si discosta dal lavoro precedente, un album calmo ed introverso. Un’intro, Ég anda, che parte lentissima e cresce di secondo in secondo per poi esplodere, un brano sofferto che commuove nella sua drammaticità come Varúð, e la meravigliosa Dauðalogn “calma piatta”, un titolo azzeccato per questo brano lento e magico, per poi concludere con due tracce totalmente strumentali, in cui Jónsi ci abbandona nelle fidate mani della sua band.

 

Qualcosa dopo Valtari ha mutato lo stato naturale delle cose. Sveinsson, colui che aveva dato alla band la sua forma definitiva, abbandona il gruppo per intraprendere una carriera solista. Le cose mutano, ma se sono forti, non si distruggono.

 

Valtari avrà molto presto un seguito, Kveikur uscito nel 2013, l’ultimo album della band. Un album totalmente diverso da ciò a cui siamo abituati e lo si capisce dal primo brano Brennistein, la calma piatta è stata abbandonata per lasciare spazio a sonorità che rasentano il rock più duro e grezzo. Un album totalmente inaspettato, che per un po’ abbandona tutta la delicatezza e la spiritualità a cui eravamo abituati, il tutto mantenendosi coerente con lo stile Sigur Rós, un’impresa che sembrerebbe impossibile ma che riesce alla grande a Jónsi e soci. Ebbene sì, l’Islanda può essere anche rock. I Sigur Rós rischiano e riescono. I brani si susseguono in maniera lineare, come un cerchio perfetto in cui non è possibile distinguere l’inizio dalla fine, tutto circola, tutto fila liscio. Stormur, Kveikur, dalle tonalità quasi assordanti e Rafstraumur, un inno gioioso ed energico, ci conducono a Var, un finale in cui ci riprendiamo da questo stravolgente vortice musicale. Ancora una volta, tutto è perfetto.

 

Sigur Ros 4

La copertina di Valtari (2012)

 

Raccontare la storia dei Sigur Rós è impresa ardua, servirebbero altre mille pagine in cui sezionare meticolosamente ogni sfaccettatura di questa band: le performance live, gli studi di registrazione scoperchiati per far entrare i mixer con una gru, il rifiuto al David Letterman Show, l’inconfondibile archetto di violini con cui Jónsi suona la chitarra, e la sua storia con Alex Somers, mente e braccio grafico della band… sapevate che questi due hanno scritto un libro di cucina vegana? Sì perché anche la grafica, i video e la simbologia sono elementi fondamentali se vogliamo parlare dei Sigur Rós, la ricorrenza di bambini e anziani ritratti in tutta la loro purezza ed innocenza, le copertine degli album… tutto meriterebbe pagine e pagine di analisi perché i Sigur Rós sono un mondo, un pianeta accanto al nostro da studiare in ogni millimetro della sua superficie; perché la loro musica appartiene ad un mondo emotivo complicato da spiegare con le semplici parole, perché oltre la musica c’è molto altro, perché i Sigur Rós sono una band che ti abitua alla loro musica, ma a cui tu non ti abitui mai.

 

Perché magari per un po’ non senti parlare di loro e poi se ne spuntano come folletti nei luoghi più improbabili. Come quando te ne stai sul divano a guardare Game of Thrones e vedi l’odioso Joffrey Baratheon che liquida annoiato i Sigur Rós giunti alle sue nozze per intonare la canzone della casata Lannister, The Rains of Castamere. Che Joffrey fosse uno stronzo si sapeva, ma da quel momento abbiamo anche imparato che di musica non capiva un cazzo.

 

 

O come quando scrolli la home di Facebook e ti trovi davanti un post dei Sigur Rós: Route One un viaggio in macchina in diretta streaming della durata di 24 ore in cui i Sigur Rós ci portano con la loro musica a scoprire tutti i 1339 km della Hringvegur; un inno alla lentezza come afferma lo stesso Jónsi:  «Oggi come oggi è tutto veloce e si cerca sempre la gratificazione istantanea; noi volevamo fare qualcosa che fosse esattamente l’opposto. Slow TV è il contrario del mondo in cui viviamo, nel senso che accade nel momento stesso e molto lentamente».

 

È a questo che non ti abitui, a un mondo che corre e ad una band che inneggia alla lentezza; a un mercato musicale che vuole brani di pochi minuti e immediatamente orecchiabili e ad una band che dei tempi brevi e dell’orecchiabilità se ne sbatte, per offrirti un’esperienza sensoriale, una musica lenta, a volte lentissima e complessa, da ascoltare più e più volte per apprezzarne ogni singola sfaccettatura.

 

Questi sono i Sigur Rós, un pianeta, un paese lontano, un’eco che risuona, un canto delicato, un frastuono assordante, una bambina ormai diventata donna e una rosa che cresce nelle terre d’Islanda.

Questa è la storia dei Sigur Rós.

 

*****

Se ti è piaciuto questo articolo leggi anche: Radiohead Ok Computer – Il canto dell’alienazione.