Il mondo chiuso in se stesso dei Suicide, non è forse quello che ognuno di noi oggi vive, chiuso nella sua piccola camera?

New York ormai da anni non è più la città che fu. Non è più il centro del mondo. La sua storia di città mondo, ormai si avvia verso i capitoli conclusivi. Il destino di città come Atene, Roma, Alessandria, Parigi, Londra, prima importantissime, ora solo stazioni periferiche, è vicino a compiersi anche per New York.

Il declino.

È da parecchio che si sente la frase “… è la nuova New York”. Ora sostituite pure ai puntini qualche nome di città cinese, russa, quella che vi pare, la sostanza non cambierà: la Big Apple è una mela bacata, il verme è nato, il verme la rode, il verme…

Poe ne sarebbe felice.

 

Ritornando a New York, ovviamente, questo discorso così apocalittico, in qualche modo è esagerato.

Oggi ancora per quelle strade, nei locali più fumosi fino a quelli più famosi, in ogni posto, nelle fogne interminabili che secondo alcuni barboni porterebbero a Barbonelandia (non scherzo!), il luogo incantato che alcuni di loro chiamano Europa (qui scherzo…), il posto dove non si lavora ma si è curati, si mangia, si è vestiti, si vive, ugualmente, ancora oggi la cosiddetta “scena newyorkese” regala perle al mondo (e ai porci).

 

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Ancora oggi la cosiddetta “scena newyorkese” regala perle al mondo

 

Quello che succede a una città come quella, è la morte per eccesso (La Grand Bouffe). La grandezza, il suo essere al di fuori di ogni misura, di ogni senso della misura, a un certo punto del suo sviluppo, la fa implodere.

La fine di New York come centro del mondo occidentale, non è stata causata dall’attentato dell’11 settembre, ciò che le è successo, era fisiologicamente prevedibile ed è stato il risultato della fine di ogni possibilità di un “fuori città”.

L’eccesso di grandezza, ha fatto collassare la struttura classica della città, l’ha estromessa come oggetto da qualsiasi sfondo, assumendo il contesto come parte interna (Nerone, uomo mondo, aveva mal di pancia e il mondo nella sua logica, ne avrebbe dovuto soffrire allo stesso modo) della città stessa.

 

È come se nella storia, questa città mondo, a un certo punto scomparisse perché non più immediatamente iscrivibile in un contesto che le renda non solo vivibile, ma anche rappresentabile rispetto a una differenza.

Quando muore il contesto è come se morisse la distanza.

Quando la periferia si ribalta (l’orrore di un contropiede definitivo, goal al novantesimo) sul centro,non ci sono più differenze, tutto è grigio.

Quando la strada non porta a nulla fuori dalla città, perché la città è ovunque, muore la distanza come elemento che consente di riconoscere (Who are you? Il Brucaliffo…) l’altro da sé.

 

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La fine di New York come centro del mondo occidentale, non è stata causata dall’attentato dell’11 settembre

 

Se ogni angolo è raggiungibile,

se ogni parte della città è illuminabile,

pensabile,

se non è differente da null’altre che se stessa,

la città vale solo per se stessa e vale ben poco.

È una prigione di uguaglianza e consumo.

 

Quando parliamo dei Suicide, noi abbiamo a che fare con musica che racconta una cosa simile.

Il disco chiave del 1977, l’omonimo Suicide, è l’incipit di un discorso completamente nuovo all’interno del rock.

I Suicide non solo distruggono un sistema codificato, ma aprono la dimensione rock a un autismo di distruzione. Una volta venuto meno il codice collettivo di riferimento, il rock come movimento popolare, ciò che resta è la singola individualità che si attorciglia su se stessa, all’interno di un contesto (come una scacchiera tutta bianca) che non esiste più come elemento capace di produrre differenze.

È la stessa cosa successa a New York: se tutto il mondo è New York, se non c’è altro al di fuori di New York, non si può essere che uguali sempre a se stessi, non si può fare altro che rinchiudersi in se stessi e annegare nell’ovvio di una quotidiana e nevrastenica ossessione.

 

 

Alan Vega e Martin Rev, rispettivamente la voce (inconfondibile!) il primo, sintetizzatore e drum machine (mostruoso!) il secondo, sono i Suicide e per anni si sono incontrati e separati, proseguendo in progetti disparatissimi, fino al momento, nel 2016, della morte di Alan Vega.

Furono odiatissimi dal pubblico. Solo al CBGB furono accolti in modo migliore, anche perché spesso, in quel meraviglioso, sordido buco, c’era gente che la musica l’ascoltava poco, in preda magari ai fumi dell’alcool, alla droga.

In ogni caso, comunque fosse andata, per anni e per tutta la durata della loro carriera, hanno avuto sempre un allegro codazzo di risse e distruzioni. In Europa, parteciparono al tour dei Clash e ricevettero insulti anche dal “colto” pubblico europeo. Durante invece l’apertura di uno dei concerti di Elvis Costello, un’ascia lanciata sul palco rischiò di colpire Alan Vega, causando l’interruzione del live.

 

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Hanno avuto sempre un allegro codazzo di risse e distruzioni durante i live

 

Non erano amati, non erano capiti. La loro musica era differente. 

La musica dei Suicide.

 

Li immagino insieme per le strade di New York, guidati da un’intuizione geniale. Inizialmente avvicinati ai Velvet Underground, similia cum similibus, credo fossero molto consapevoli di avere per le mani qualcosa di terribile.

Non è un fenomeno simile al punk, alla rottura (di timpani), rappresentata dal punk.

In realtà no.

Il punk è stato la rivolta contro il regime paterno, una sorta di ribellione in senso freudiano, l’assassinio del padre. Il punk è stato nichilismo, è stato il tentativo dell’onnipotenza bambina, alla Pinocchio, ogni bambino si crede onnipotente, di prendersi il mondo del “lavoro” prodotto dalla dittatura paterna per sostituirgli un universo di giochi. Il punk era la rivolta di una gioventù che rifuggiva l’impegno al rispetto del divieto, rivendicando la possibilità di essere nulla.

La musica dei Suicide è molto diversa dal punk.

Nella loro musica non ci sono spazi vuoti.

È un blocco unico di carne e materiali sintetici.

 

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La musica dei Suicide è molto diversa dal punk

 

Il ritmo del sintetizzatore, la drum machine, la ripetizione, tendono a generare una cartografia del desiderio che imprigiona il reale. Questa musica così profonda, è il suono dell’assoggettamento di uno spazio inteso come avventuroso luogo di conquista, a una rete di connessioni prestampate che ripetute allontanano la possibilità di immaginazione.

A forza di ripeterle le cose, non è che se ne perda il senso, ciò che accade è la separazione di un processo generale in fasi sempre più piccole: è la catena di montaggio in definitiva, portata all’eccesso che si smaterializza e diventa una miriade di piccolissime operazioni di controllo e misura.

I Suicide camminano per strada e cantano, ma la loro musica non vola alto.

La musica dei Suicide, è come la stanza minuscola di una palazzina grigia in cui tutte le stanze sono uguali, è la colonna sonora di un mondo immobile permanentemente, a causa di un’ossessiva ripetizione rituale.

 

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La musica dei Suicide è la colonna sonora di un mondo immobile permanentemente

 

Quando ascolto Suicide del 1977, penso anche al Tetsuo di Tsukamoto, alla metafora terribile che rappresenta quel film.

Mi riferisco agli oggetti, all’annullamento della distanza rappresentato nel film, da questi oggetti che si attaccano al corpo, sembrerebbe almeno inizialmente, fino al ribaltamento finale. Alla fine infatti, il corpo è scomparso definitivamente, non esiste più, annullato da una prossimità assassina con le cose, ne è soffocato.

Il corpo di Tetsuo, come la musica dei Suicide, è il centro di gravità (permanente) di un’attrazione che è successiva alla morte della distanza.

Le cose non si muovono, si attraggono e si assimilano, le une letteralmente incollandosi alle altre, in un mortale e immorale abbraccio, nell’attrito tra epidermidi trafitte.

 

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La musica dei Suicide è simile al concetto di Tetsuo

 

Il secondo disco è più generoso. Suicide: Alan Vega and Martin Rev del 1980, è un capolavoro più dolce.

Non credo fosse un disco minore, anzi, secondo me, resta uno dei loro lavori migliori.

Ha qualcosa di dolce, qualcosa di delicato rispetto al primo.

Se il primo disco fu così abbacinante, il secondo diventò un must per la musica elettronica.

Fu il disco di una svolta più popolare, non voluta con fini meramente commerciali, ma la conseguenza di una necessità di far musica non più emergenziale, senza il terrore di chi si ritrova in trappola, con la consapevolezza di chi la prigione la conosce e ci si abitua.

Anche un condannato si abitua. Ciò che contraddistingue davvero l’uomo, è solo e soltanto la sua capacità di adattarsi a tutto.

 

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Suicide: Alan Vega and Martin Rev del 1980, è un capolavoro più dolce

 

Trovo magnifico e tragico questo destino comune al genere umano, la sua capacità di rendere convenzionale ogni fenomeno inizialmente inconcepibile.

Il disco va avanti con un’elettronica scintillante, in alcuni casi sprofonda di nuovo verso il precedente lavoro, ma si rialza subito, ritorna a una più aerea forma di musica da camera, da locale.

Ho visto in questo lavoro, dalla prima volta che l’ascoltai, una similitudine con il cosiddetto melodramma bianco di Douglas Sirk, per la presenza di una tensione di fondo, evidente, che si annoda all’esistenza nella forma di un’inquietudine che nulla riuscirà mai a cancellare.

Allo stesso modo di film come Magnifica Ossessione, i Suicide tirano fuori una perfetta confezione, una musica ben più ascoltabile che però, come una tenda chiusa male, lascia filtrare una luce scura e limacciosa come l’occhio bovino e idiota di un fanatico, la presenza (… la presente e viva e il suon di lei…) di un sole nero (black hole sun) pronto a oscurare tutto, incombente.

 

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Allo stesso modo di film come Magnifica Ossessione, i Suicide tirano fuori una perfetta confezione

 

L’ultimo disco per me notevole, fu quello del 2002, se non altro perché venne dopo anni e anni di lontananza, in cui Vega e Rev inseguirono sogni solisti e non, raggiungendo a volte anche dei notevoli risultati.

Il disco si chiama American Supreme e fu inciso subito dopo l’11 settembre. In questo lavoro i Suicide ritornano di nuovo a evocare un malessere profondissimo, in alcuni momenti pari quasi a quello del lontano 1977, riuscendo a essere profetici.

Se nel 1977, il disco segnò uno spartiacque nella storia del rock, riscrivendo completamento alcuni canoni e soprattutto aprendo a una dimensione interpretativa nuova, il lavoro post 11 settembre non lascia certo indifferenti.

 

 

Mentre in tutto il mondo ci si affannava a cercare di razionalizzare il tutto, individuando nemici, avversari che esistevano per essere eliminati in un impeto razionalissimo di vendetta, i Suicide mostravano il solito volto, la descrizione con loop e repliche di un mondo consegnato definitivamente alla ripetizione.

Quel muro di suoni che non prevedeva altro che se stesso, ancora una volta autoreferenziale, annunciava l’inerzia del sentimento che anche di fronte alla grandi tragedie, sarebbe stato l’inizio della fine non solo della possibilità di riconoscere l’altro di fronte a noi, ma della fine conseguente di ogni principio di solidarietà.

Il mondo chiuso in se stesso dei Suicide, non è forse quello che ognuno di noi oggi vive, chiuso nella sua piccola camera, circondato da oggetti che esorcizzano, perché prodotti di consumo universali, ogni differenza per aiutare a superare il terrore?

 

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