The Brian Jonestown Massacre: un gruppo, una sicurezza.

Quando ho deciso di scrivere alcune righe sull’ultimo album dei The Brian Jonestown Massacre, ho avuto la sensazione di dover destrutturare ogni idea a priori che potessi avere a riguardo. Le parole di Anton Newcombe, d’altro canto, sono state il giusto monito:

 

“Mi chiedo come diavolo si possa parlare di qualcosa di cui non si ha idea. Mi giudicano non sapendo, ma le loro parole sono sterili per me”.

 

Dunque, meglio andarci piano, mi sono detto, visto che un ascolto critico da un piedistallo non ha mai funzionato con personaggi sui generis come loro.

Sapevo che i Brian Jonestown Massacre ci avrebbero spiazzato. Sapevo anche che non avrebbero deluso aspettative, giacché non hanno mai amato crearne.

 

Prima dell’ascolto, però, ho creduto di andare incontro a qualcosa di molto simile all’album Who Killed Sgt. Pepper? o, più precisamente, alla canzone Someplace else unknown.

 

Sottilissime trame di un ossessivo disturbo ricercato, tempestato da sonorità rock’n roll industrial punk noise psichedelico, che se un un beatnik leggesse queste parole vorrebbe poter dire “Che sballo!”.

 

Frasi come: “Damn motherfucker man, I need to get high” oppure “I’m not asking ‘bout Jesus, not askin’ for hugs, ‘cause I’ll fucking kill you, and everyone too, I don’t give a fuck about World War II” creano i presupposti per sognare un accattivante ritorno alle generazioni punk anni ’90 con tematiche beat.

Ma il tutto risulterebbe abbastanza stagnante: basti ricordarsi dell’EP Bringing it all back home – again. Una citazione fin troppo facile che lascia immaginare quanto quella fase sia stata importante per il gruppo, ma ormai superata. Superata e non archiviata del tutto, come dimostrano alcuni pezzi di Third World Pyramid.

 

The Brian Jonestown Massacre 1

La copertina del disco

 

Ma procediamo con ordine.

 

Il quindicesimo lavoro della band di San Francisco, è un’opera del tutto eterogenea, che nel panorama underground di questi anni si colloca tra i capisaldi, senza fare troppo rumore. L’album è stato registrato interamente nei Cobra Studios, a Berlino. Studio di proprietà dello stesso Newcombe, stabilitosi ormai dal 2007 nella città, ritenuta la più attiva e variegata culturalmente.

 

Affidata a Katy Lane (moglie di Newcombe), l’apertura dell’album è una malinconica ballata folk, il cui onirismo ristabilisce un armonioso equilibrio di sensazioni, laddove prima era disordine emotivo.

Se l’associazione più comune che vi viene in mente è quella con Nico, non temete gente, e se l’avete fatta, beh, complimenti!

New Mourning è il principio, un consapevole risveglio dall’oblio.

 

In Government Beard la voce di Newcombe si riprende la scena, accompagnato da arrangiamenti orchestrali e riflessi punk noise. Un mix del tutto riuscito che permette al testo di imporsi nel suo ripetuto ermetismo.

 

“Far, far away, it’s where I stay”

 

Questo brano sembra essere un ponte levatoio che fa da ingresso al cuore dell’album.

 

È in Don’t get lost, infatti, che prende forma il progetto artistico, una mini rivoluzione senza caos. Il pezzo è un decollo verso l’ignoto: decollo accompagnato da fiati che ovattano ogni isterica sensazione di terrore.

 

E poi il rovescio che non ti aspetti, uno schiaffone in pieno volto per gli amanti del jazz vogliosi di sperimentare nuove sonorità: The assignment song, di cui Nina Simone si è fatta grandissima interprete. In questi nove minuti, si possono abbracciare i folli naufragi che Newcombe ha sempre vissuto come avventure Noir di un cinema in penombra. I Brian Jonestown rivisitano questo brano nel quale convivono rock, psichedelia e sonorità orchestrali. La poesia di Jan & Lorraine (vere artefici del brano) sembra essere stata scritta proprio per un simile arrangiamento; spettava a Newcombe e ai suoi compagni di viaggio portarla all’apogeo.

 

“Dovrei unire i miei pensieri con i tuoi ed essere triste,

donarti sorrisi, condividere tutto il mio tempo?

Andiamo, piccola!

Pensa per te, non sai che ci sono cose che non posso fare?

La mia mente è sulla buona strada,

un’altra prospettiva per adesso!”

 

Già, proprio un’altra prospettiva da cui guardare le cose. Era questo il significato di cui si era alla ricerca, un dolce risveglio dal coma percettivo che lo sballo di un’intera generazione ha impedito, portando Newcombe, negli anni, a diventare un problema per se stesso.

 

È questo che adesso gli viene contestato. Di non essere più lo sballato che era e che, con le sue sonorità, piaceva e affascinava nel suo mistero.

Fortunatamente essere artisti non vuol dire soltanto produrre arte, ma evolversi e sovvertire alcune delle certezze acquisite.

Il ragazzino di ‘Frisco’ sembra averlo capito.

Third World Pyramid, del tutto sperimentale per la band, ne è l’emblema.

 

Sperimentazione che tocca le forme più alte e surreali nei brani strumentali, quali Lunar surf graveyard e Oh bother. Una caduta libera nel cuore dell’identità visionaria dell’album, che non lascia spazio a troppe parole. Sembrerà di dover descrivere un colore ad un non vedente strafatto di acidi.

Ed è proprio quello che provano a fare in Like describing colour to a blind man on acid, le cui sonorità richiamano vagamente il brit rock alternative degli Smiths.

 

Nessuna noia, dunque, nello scenario poliedrico venutosi a creare in quest’album.

Un brano in particolare sembra la porta ultramondana attraverso la quale sua maestà John Lennon, redivivo, decide di passare, per quattro minuti di Jam-session con Newcombe.

The sun ship è la chiusura perfetta di un album assemblato quasi a caso, secondo i più critici ascoltatori da poltrona, ma non per gli attenti degustatori di novità.

Peccato per gli uni, meglio per gli altri. Questione di punti di vista. L’album ipnotizza come il gong di fine incontro, che ha visto Newcombe stravincere ancora.

I vincenti ‘nonostante tutto’ fanno rabbia, soprattutto se artisti. Chi ha guardato il documentario DIG ne sa qualcosa.

 

 

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