Il 16 giugno del 1986 usciva il capolavoro degli Smiths. The Queen Is Dead.

Steven Patrick Morrissey è ancora vivo. Chissà dove, ma è vivo, e questa è già una notizia. Magari è in Messico, dove ama rifugiarsi per sfuggire all’attenzione dei media. Ci piace immaginarlo a Isla Mujeres, accanto al tempio dedicato alla dea della fecondità Ixchel, mentre sorseggia una tequila, mangiando delle enchiladas al tofu, o del chili con fiocchi di soia. Tutto rigorosamente vegan.

 

Ha 57 anni, ed è ancora vivo. Lui che una volta disse a ‘Nme’: “Il suicidio intriga tutti. Ecco perché molte persone che ammiro lo hanno praticato”. Lui che in un pezzo di una decade fa cantava: “Living longer than I had intended, something must have gone… right!” Lui che è sempre stato affascinato dalle morti premature, dalle anime tormentate che se ne sono andate presto, da Oscar Wilde a James Dean fino al suo amato drammaturgo Joe Orton (avete presente il termine “ortonesque”?). Lui che si disse invidioso della morte di Kurt Cobain. Non è morto in macchina, accanto alla sua amata, investito da un autobus a due piani, come quasi auspicava 30 anni fa.

 

Facciamo un passo indietro. Alain Delon è moribondo. É un giovane aderente all”OAS’, il gruppo paramilitare formato dai generali ribelli a De Gaulle dopo l’abbandono dell’Algeria. Ha accettato di rapire un’avvocatessa che si batte per gli algerini, ma si innamora di lei e non esita a tradire i compagni, che però lo hanno trovato e ferito mortalmente. Si accascia a terra, a pancia in su. Si porta le mani al viso: vuole morire con gli occhi chiusi, e vuole che sia lui, manualmente, a chiuderli, con un gesto di grande autodeterminazione e un inno alla misantropia. E’ il finale di un noir del 1964, L’insoumis, che si chiude con l’urlo di disperazione di Lea Massari. Ma è anche la copertina di The Queen is Dead, il capolavoro di Morrissey, Marr, Rourke e Joyce, che il 16 giugno scorso ha compiuto 30 anni.

 

 

Delon dette il suo consenso all’uso del fotogramma, seppur anni dopo scrisse a Morrissey che i suoi genitori erano sconcertati dal fatto che qualcuno potesse chiamare un disco in quel modo. Il titolo, oltre ad essere un manifesto programmatico, è ripreso dal primo racconto scritto nel 1958 da Hubert Selby, poi inserito come primo capitolo del romanzo Last Exit to Brooklyn che quando uscì fu investito da una marea di polemiche a causa della descrizione accurata di violenze sessuali e domestiche, omosessualità e uso di droghe. Il titolo originale sarebbe dovuto essere Margaret on the Guillotine (e non si fa fatica ad immaginare a quale Margaret ci si riferisce). Meno ficcante, ma della stessa sostanza: il canto del cigno dell’Impero Britannico, la dissacrazione delle istituzioni, in particolare della Monarchia (“la più inutile di queste, uno scherzo, solo un fottuto scherzo”, arrivò a dire Morrissey), perpetrata attraverso la pungente ironia che ha sempre caratterizzato le liriche di Moz, pregne di campanilismo anche nei suoi momenti più cinici (l’autobus a due piani di cui sopra vi dice qualcosa?).

 

Si parte forte, fin dall’intro, che è un campionamento di un’antica canzonetta di varietà inglese, Take Me Back to Dear Old Blightly (nella versione cantata da Cicely Courtnedge nel film The L Shaped Room del 1962) sull’inutilità della guerra e sull’insofferente nostalgia di casa dei soldati. Poi arriva Morrissey a punzecchiare subito la Regina: “Sono entrato a palazzo con una spugna e una chiave a ganascia arrugginita, lei mi ha detto ‘ti conosco, sei quello che non sa cantare’, le ho detto ‘quello non è niente, dovrebbe sentirmi suonare il piano” (piano che poi Moz si toglierà lo sfizio di suonare in Death of a Disco Dancer nel successivo Strangeways, Here We Come). Il riferimento è a Michael Fagan, che nel 1982 si introdusse nella camera da letto della Regina mettendo in imbarazzo i servizi di sicurezza reali. Ma è la sfrontatezza con la quale Moz affronta il tema della Monarchia a colpire nel segno: una presa di giro bella e buona!

 

The Queen Is Dead

La regina mostra il dito medio!

 

 

Il disco è stupendo, forse la stella più luminosa di quel miracolo musicale chiamato Manchester, ma questo lo sappiamo. Si muove ondeggiando tra momenti intimisti e malinconici,  tra amori finiti e amori non ricambiati, tra ironia e poesia, in bilico tra la vita e la morte, il tutto sorretto dalle chitarre irraggiungibili di Marr e la voce profonda di Morrissey. I Know It’s Over (una poesia, più che una canzone), Bigmouth Strikes Again (in cui Moz diventa un novello Giovanna d’Arco), There’s a Light That Never Goes Out sono pezzi che regalano gli Smiths all’immortalità.

 

 

La genesi però non fu semplice, anzi. Andy Rourke, il bassista, era dipendente dall’eroina. Per le sessioni di registrazione fu sostituito da Craig Cannon degli Aztec Camera. Ma soprattutto ci fu il primo episodio di scontro tra gli Smiths (ed in particolare Moz) e una casa discografica: la Rough Trade, nonostante il lavoro fosse già stato ultimato, né bloccò la pubblicazione per alcune perplessità relative ai contenuti. Johnny Marr arrivò a raccontare a ‘Q Magazine’: “Guidai da Manchester a Surrey, sotto la neve. Con il mio tecnico della chitarra cercai di rubare i nastri dallo studio, ma il tentativo però fallì”.

 

A testimonianza dei cattivi rapporti con le case discografiche abbiamo proprio la mancata celebrazione dei 30 anni di The Queen is Dead da parte della Warner: non una ristampa, non un’edizione speciale, nulla di nulla per uno dei dischi più importanti della storia della musica inglese. Morrissey è andato su tutte le furie (“Evidentemente alcuni boss dell’etichetta hanno la loro testa da un’altra parte, mentre altri semplicemente la testa non ce l’hanno”), scrivendo un comunicato polemico sulla sua webzine, True To You. Fantastica, ed emblematica del personaggio, la chiosa finale: “I am absolutely yours, in pleasant speaking voice, and with good grace”. Capito cos’è l’ironia? Meno male ci hanno pensato a Salford, sobborgo di Manchester frequentato dalla band, ad omaggiare gli Smiths, con installazioni video e mostre fotografiche.

 

A 30 anni da ‘The Queen is Dead’ e a 29 dallo scioglimento, la domanda dei fan è sempre la stessa: è possibile una reunion degli Smiths? La risposta è lapidaria: no, e ci concediamo anche il lusso dell’omissione di un “mai dire mai” che suonerebbe solo beffardo. A levarci il beneficio del dubbio, sono le interviste rilasciate da Moz nel corso degli anni. Una su tutte: “Preferirei mangiarmi i testicoli piuttosto che rimettere insieme gli Smiths. E questo per un vegetariano dovrebbe voler dire qualcosa”. Mettiamoci l’anima in pace dunque, e magari speriamo di vedere presto Morrissey di nuovo a Firenze, come già successo due anni fa.