Ci sono cascato anch’io, lo ammetto. Un tempo ho militato in una cover band. Facevamo 2 ore e mezzo di spettacolo con i più grandi successi dei Blur, poi abbiamo smesso perchè non ci chiamava nessuno a suonare e molto probabilmente siamo stati il paradosso del paradosso italiano: l’unica cover band che guadagnava meno di un complesso che suona materiale inedito.

Già perchè solitamente funziona al contrario, ovvero chi propone materiale scritto da altri musicisti offrendone una summa, od un “il meglio di”, può aspirare ad ottenere dai locali dei cachet di tutti rispetto, che molte band professionali stentano ad ottenere. Siamo un paese strano e questa è una delle sue tante stranezze. Alla fioritura delle cover band hanno concorso due fattori fondamentali: una forte esterofilia di fondo e una pervasiva paura del nuovo e dello sconosciuto. Queste due dinamiche sociali hanno fatto sì che nel nostro paese ogni 32 secondi nasca una nuova cover band dei Queen, mentre c’è chi è disposto a pagare un biglietto per godersi il concerto della cover band di Vasco. La cover band inoltre assicura uno spettacolo confortevole, un film di cui già si conosce il finale, in cui i colpi di scena non sono previsti e anzi, sono del tutto sgraditi. Andando a vedere la cover band del proprio gruppo preferito, siamo sicuri a prescindere che la musica sarà di nostro gradimento, che sicuramente conosceremo le parole delle canzoni per potersi unire in coro ai ritornelli, e così godremo del feticcio casalingo a km 0 dei propri eroi musicali. Per chi non avesse chiaro il concetto, una cover band (dall’inglese gruppo di copertura, se vogliamo) è quella formazione musicale che incapace o disinteressata allo scrivere musica inedita, decide di dedicarsi interamente all’opera di altri musicisti, studiandone con attenzione il repertorio, i metodi e gli stilemi esecutivi e in alcuni casi anche abbigliamento e atteggiamenti da palcoscenico. Possiamo poi discernere due qualità diverse di cover band: la tribute band – che quindi eseguirà il repetorio di un solo gruppo o musicista – e la cover band tematica – che quindi affronterà produzioni attinenti ad un solo genere musicale. Questa disciplina, se così vogliamo chiamarla, ha dei risvolti tutt’altro che innocenti, sia dal punto di vista privato che pubblico e sociale.

Ho osservato molte vittime da cover band e ogni volta che ne scopro di nuove mi si accappona ancora la pelle. Vorrei in aiuto uno psicologo per capire esattamente quale meccanismo scatti nella testa di una persona, tale da spingerla a vestirsi, comportarsi  e addirittura pensare come il proprio idolo musicale. Nel corso degli anni ho assistito, per esempio, a numerosissime vittime di Liam Gallagher: giovani con tanto da dare al mondo, che si perdono in una marea di sciocchezze fatta di occhiali ray-ban sfumati di dubbio gusto, piastrature di capelli improponibili, un armadio fatto di circa 4 o 5 tipologie di capi di abbigliamento, selezionati esclusivamente sulle foto del beniamino della vecchia Manchester e, cosa ancora più preoccupante, questi giovani arrivano a consumare ingenti quantità di chewing-gum e a camminare con il peso della propria schiena spostato all’indietro, SOLO per emulare anche nella vita di tutti i giorni il sempre colorito “cantante” degli Oasis. Ovviamente manco a dirvi che, una volta sul palco, canteranno con la tipica posa “a mento all’insù”, impugnando un cembalo da suonare di tanto in tanto.

Altro grande esempio di degenerazione da cover band è da individuare nei seguaci di Freddie Mercury & band. La cover band dei Queen, come concetto, ha sempre prodotto delle catastrofi musicali unendo un repertorio infinito, un pubblico attentissimo e adulante e una componente virtuosistica, propria della band inglese. Assistendo ad un concerto cover dei Queen sono stato avvicinato da un fonico il quale, indicandomi il chitarrista impegnato in un complessissimo assolo di Brian May, mi ha ammonito con faccia seria “sta suonando solo al 40% delle sue possibilità”. Altre volte ho visto dei cartelloni pubblicitari ritraenti Freddie Mercury, per poi scoprire con orrore, che era in realtà un ragazzo che si era sottoposto ad operazioni chirurgiche per somigliare di più al proprio beniamino. Come se la chiave di Mercury stesse nel suo aspetto fisico e non nella sua preparazione e sconfinate capacità vocali.

Sul lato delle cover band tematiche assistiamo invece a dei veri e propri esempli di filologia musicale: intere esistenze dedicate all’ascolto, alla comprensione, allo studio ed alla riproposozione di UN SOLO genere musicale. Questo solitamente avviene prepotentemente con il rock di stampo 50s e 60s e col metal, però nel caso del secondo e ruomoroso genere, assistiamo più facilmente al fiorire di tribute band piuttosto che di formazioni dal repertorio generico, e comunque assurgendo più ad essere una vera e propria way-of-life anche per coloro che non hanno mai imbracciato alcuno strumento. Che sia rock vecchio stampo o che sia metal, il vestiario svolge una funzione fondamentale. Come detto, si tratta  vera filologia. Senza sconti.

La cosa drammatica è assistere a questo genere di dinamiche anche quando il soggetto si lascia alle spalle l’adolescenza e si affaccia all’età adulta, dove si presupporrebbe una certa autonomia di pensiero ed una personalità formata e sicura. Magari.

Abbandonando il privato e analizzando il sociale, devo sottolineare quale grande tumore della musica siano le cover band. Non me ne vogliate, ma la cover band è un po’ come Barbara d’Urso: fà grandi ascolti per forza. Così come l’inenarrabile conduttrice attinge ai sentimenti più bassi ed intimi dell’essere umano, per accattivarsene le pietose attenzioni,  la cover band gioca agile su quella strana quanto iperbolica mistura di xenofobia ed esterofilia già citate in precedenza. Si crea quindi un meccanismo perverso e degenerativo per il quale il gestore medio di un bar tenderà ad assicurarsi le prestazioni di una cover band, in grado di attirare nostalgici, turisti senza pretese e gusti estetici, e molto più semplicemente tutta quella massa informe di persone per cui la musica non ha alcun valore e il sapere che nel dato locale verranno eseguiti i brani di Ligabue (piuttosto che dei Beatles), non può che avere un effetto rassicurante di esposizione a qualcosa che già si conosce e che è ampiamente accettato a tutti i livelli sociali. Questa è in sintesi la cover band: qualcosa che si conosce, che gli altri già conoscono e che quindi non dobbiamo spiegare né motivare, eliminando ogni rischio di essere giudicati. Il grande successo che la formula riscuote crea quindi un ulteriore restringimento delle possibilità per un musicista esordiente di esibirsi, e magari di ricevere un equo compenso per la propria performance artistica. 

Più nello specifico non riesco proprio a comprendere l’esistenza della cover band di un qualcosa ancora in attivtà: che senso ha andare al concerto della tribute band dei Negramaro? Al di là del terrore musicale ed artistico, non varrebbe la pena ascoltare i loro dischi ed aspettare il loro concerto vero, autentico, originale?  Sarebbe bello che un’istituzione come la SIAE privilegiasse, in termini di retribuzione di diritto d’atuore a chi esegue, e di sgravi fiscali a chi organizza, esibizioni di musica originale disincentivando, al contrario, le cover. Ma so di essere un sognatore, sebbene non il solo, spero che un giorno ti unirai a me e il mondo vivrà come fosse uno.

Stendo un velo pietoso sulle varie “Cartoon Experience” o “Disco ’80 Cover Band” e cose simili.

Per finire voglio riabilitare il concetto di cover, citando alcuni grandi artisti che della rivisitazione dei brani altrui  hanno fatto una forma d’arte. Partiamo dal principe delle tenebre Jimi Hendrix, che prende un brano di quaresimale folk acustico e lo trasforma in un caleidoscopio di rock psichedelico, fra virtuosismi di chitarra, una produzione esaltante ed un cantato unico. Ri-ascoltatevi la sua versione di All Along The Watchtower e ditemi se non ho ragione. Vera avanguardia musicale con forti radici nella tradizione, perfetto. Di Hendrix avrei almeno altre 4 cover degne di nota di cui parlare ma preferisco passare ad un altro eroe ed artista assoluto, Otis Redding. Il Re del soul e del r’n’b ha rappresentato a metà degli anni ’60 una vera fonte di ispirazione per generazioni di musicisti bianchi che avrebbero poi scritto la storia della musica. Da attento musicista e furbo imprenditore di sè stesso opera il processo inverso: non sarà un imberbe chitarrista di South London a fare una cover di un classico blues, bensì sarà un artista di punta della scena black a rendere omaggio all’esplosione della musica bianca. Redding prende I Can’t Get No Satisfaction e se possibile alza l’asticella, mette via la chitarra aggressiva di Richards ed ecco una scintillante sezione di fiati, si alzano i giri del motore e la sua performance vocale è qualcosa di incredibile. Per me nel 2015 rimane il pezzo più ballabile della storia. Ascoltatene la versione esguita al Monterrey Pop Festival del ’67, praticamente ascolterete un gruppo punk che suona r’n’b.

Chiudiamo con un grande musicista, un grande cantante, un’autentica icona dei 60s e di Woodkstock: Joe Cocker. Proprio sul palco di Woodstock si produsse in una cover memorabile: With A Little Help From My Friends dei Beatles diventa un gospel rock con forti venature blues e soul, esplosioni di organo hammond e chitarre ruggenti. L’ingresso della voce di Cocker, sul fondo di basso e organo, è da lacrime, il pubblico risponde subito con un applauso. Il resto lo lascio alle vostre orecchie. Con questo augurio di fratellanza, vicinanza ed amicizia espresso dalla canzone, vi auguriamo il miglior 2015 possibile. Magari con qualche cover band in meno e qualche Joe Cocker in più, di cui oggi più che mai ne sentiamo la mancanza. Auguri!