I problemi del giornalismo europeo per Michael Haller.

L’Osservatorio Europeo per il Giornalismo ha pubblicato qualche giorno fa l’intervento di Michael Haller all’European Media Freedom Conference. Haller è il direttore del Research Department della Hamburg Media School e membro del comitato scientifico del Eijc (European Institute for Journalism and Communication Research) di Lipsia. Nel suo intervento Haller ha parlato della crisi di credibilità che riguarda soprattutto il giornalismo europeo. Ha citato l’esempio del Guardian, definito dagli inglesi il “giornale più affidabile, degno di fiducia e preciso del Regno Unito”, ma che allo stesso tempo si trova a dover gestire un pericolosa perdita di lettori (sia dal cartaceo che dal sito) e a lavorare in perdita. Al momento, ha detto Haller, ciò che permette al Guardian di non sprofondare sono i 50 milioni di sterline con cui lo Scott Trust finanzia ogni anno la testata. La domanda è: in quali altri paesi è possibile una cosa del genere?

 

Haller sostiene che oltre ai problemi economici, il giornalismo europeo risenta anche di una crisi di credibilità, per la quale il giornalista ha evidenziato cinque probabili cause.

 

Declino della capacità di ricerca

 

La diminuzione del numero di redattori che compongono una redazione fa sì che il lavoro per il contenuto richiesto diventi sempre più gravoso. A farne le spese è il processo di ricerca delle informazioni. I giornalisti si ritrovano obbligati ad attenersi alla versione ufficiale, senza avere la possibilità di andare oltre.

 

Mancanza di professionalità

 

Haller dice che i giovani editor spesso hanno poche nozioni in merito a ciò che significhi davvero fare ricerca giornalistica. Si tende quindi a tralasciare la fondamentale attività investigativa e a pubblicare qualsiasi contenuto provenga da agenzie di marketing o strutture simili. Si finisce per fare pubbliche relazioni, e non giornalismo. Un lettore attento è in grado di accorgersene facilmente ed ecco che il declino è ancor più accentuato.

 

La corsa agli introiti pubblicitari 

 

I media online tendono a scambiare (volontariamente, certo) il fare giornalismo con ciò che è intrattenimento, occupandosi di argomenti frivoli e di scoop irrilevanti. Lo scopo delle testate che assumono questa linea è quella di ottenere più click, e quindi potersi presentare da un’inserzionista interessato a mettere la propria pubblicità su quel sito. Non è tutto: alcuni siti incamerano dati dei propri utenti importanti per fini commerciali, e anche questi sono moneta di scambio fondamentale per generare introiti dalla pubblicità.

 

Il risultato, dice Haller, è che stiamo producendo una nuova generazione di persone che credono che il giornalismo non sia altro che generare intrattenimento.

 

Troppe opinioni, pochi fatti 

 

i Millennials tendono ad informarsi sui social network, spesso attratti dall’opinione di qualche personaggio influente. Di rimbalzo, ecco che alcuni direttori di importanti testate giornalistiche tendono a commentare i fatti senza che questi siano stati verificati. Aprire bocca prima del tempo per attrarre un pubblico preciso. “Oggi, molte persone diffidano dei media perché, invece di ricevere informazioni neutrali, si ritrovano a leggere troppi commenti e troppe opinioni”. E ancora: “Chi ha opinioni politiche divergenti da quelle dei giornalisti d’élite, poi, non a caso, è particolarmente scontento del servizio che riceve”, una dinamica che somiglia molto al rapporto che hanno i simpatizzanti del Movimento Cinque Stelle con le testate italiane.

 

Poca diversità dal mainstream 

 

Dice Haller che troppo spesso i maggiori organi di stampa tendono a pubblicare contenuti che tendono tutti verso la solita desiderabilità. Questo succede da un punto di vista politico, economico e culturale. In altre parole, si tende a pubblicare ciò che si presume la maggioranza degli utenti si aspetti. Ciò porta all’assottigliarsi delle differenze ideologiche tra schieramenti opposti, ma fa sì che le minoranze percepiscano questo pesante e omogeneo mainstream come arrogante e ipocrita.

 

A riprova delle proprie spiegazioni, Haller ha citato l’esempio riguardante lo scandalo Volkswagen: nel 2014 l’istituto di ricerca indipendente berlinese International Council for Clean Transportation aveva informato già allora che c’era qualcosa di marcio dietro alle emissioni dichiarate dall’azienda di automobili tedesca. A riportare il comunicato diffuso dall’ICCT furono 43 siti di news tedeschi. Der Spiegel, il maggior quotidiano del paese, scrisse il titolo innocuo “Produttori di automobili truffano i test d’emissioni” (“Autobauer schummeln bei Angabe von Abgaswerten”). Nessuna testata approfondì la questione. Haller dice che questa rinuncia all’investigazione giornalistica era inevitabilmente intrecciata con la sacralità dell’automobile tedesca per i tedeschi. Forse non valeva la pena scomodare la natura perfetta di un oggetto sacro, soltanto per raccontare la verità, o perché no, approfondirla.