Domenica 9 novembre 2,3 milioni di persone circa hanno aderito al proceso participativo riguardante la “questione catalana”.
La votazione, la cui denominazione ha nel corso del tempo subito varie metamorfosi passando da referendum, a consultazione alternativa, a, appunto, processo partecipativo, ha avuto una storia travagliata nonché un ruolo rilevante nella politica interna spagnola.
L’acceso braccio di ferro tra Madrid e il Parlamento catalano, la Generalitat de Catalunya, ha dato vita a un crescendo di emozioni che ha raggiunto il suo apice il 4 novembre, quando la Corte Costituzionale ha bocciato anche la “soluzione tampone” di una votazione meramente simbolica con cui i catalani potessero esprimere la loro opinione sul tema dell’indipendenza. Tale proposta era seguita alla dichiarazione di incostituzionalità del referendum, rilasciata dalla Corte Costituzionale il 29 settembre in seguito al ricorso avanzato dal Governo di Rajoy.
Mentre il dibattito tra chi alludeva a timori del Governo centrale e chi ha applaudito all’operato dell’organo costituzionale infervorava, a Barcellona la decisione ha generato un forte malcontento tra gli indipendentisti che, nelle sere successive al 4 novembre, hanno manifestato affacciandosi coordinatamente dalla finestra per sbattere con vigore del pentolame – in quella che loro chiamano cacerolada.
Artur Mas, il presidente della Generalitat de Catalunya, ha definito la bocciatura una “violazione dei diritti fondamentali dei catalani” e ha poi affermato: “Adelante!” dando il via libera a procedere nonostante la mancata approvazione della votazione da parte del Governo.
E così il popolo catalano è andato a votare.
Jordi è stato uno dei 40 mila volontari in uno dei 1317 istituti pubblici che hanno ospitato il processo di partecipazione cittadina ed il giorno prima del voto mi ha illustrato la sua prospettiva. “Non sappiamo quali saranno le conseguenze di questa consultazione, ma è un’occasione unica per i catalani, un appuntamento con la (nostra) storia che non possiamo lasciarci sfuggire! Il 9 novembre di venticinque anni fa crollava il muro di Berlino, il 9 novembre di quest’anno la Catalogna si opererà affinché crolli il muro dell’ostruzionismo spagnolo alla sua indipendenza”.
Domenica ho visitato alcuni seggi, partendo proprio dalla scuola elementare dove lavorava il mio amico. Sul tragitto era inevitabile non fare caso alle bandiere e ai cartelloni gialli i cui caratteri rossi rivendicavano l’indipendenza e inneggiavano ad un paese nuovo. Camminando carpivo brandelli di concitate conversazioni in catalano mentre la moltitudine di persone con maglie, sciarpe e bandiere gialle a strisce rosse creava un forte colpo d’occhio, in contrasto con la grigia giornata novembrina.
Fuori dal seggio si snodava una lunga ed ordinata coda di persone che aspettavano pazientemente di rispondere alle due domande ereditate dall’originario referendum: “Vuole che la Catalogna sia uno stato?”; “Vuole che la Catalogna sia uno stato indipendente?”. Sorprendente l’assenza, almeno nei tre seggi che ho visitato, di poliziotti in divisa. Presenza che tuttavia si è dimostrata non necessaria poiché l’intera votazione si è svolta in un clima di estrema tranquillità, se non per alcuni irrilevanti episodi subito arginati dalla sicurezza interna dei vari seggi.
Mentre domenica sera Artur Mas commentava la giornata definendola un “pieno successo e una lezione di democrazia”, Jordi mi ha inviato un messaggio con i risultati della sua urna: “Al mio banco 467 voti: 381 Si-Si (82%), 44 Si-No (9%) e 19 No (4%). Le restanti schede in bianco o annullate”. Infine, concludeva dicendo: “Ara és l’Ahora :)” – in catalano “Adesso è l’ora”, slogan del movimento indipendentista nonché parole cariche di significato per chi ha lavorato senza sosta per poter scegliere democraticamente le sorti della comunità autonoma più ricca di Spagna.
L’“exit poll” di Jordi si è rivelato un ottimo stimatore del risultato finale: l’80,75% dei votanti ha infatti scelto la combinazione “si-si”, sottoscrivendo dunque il desiderio indipendentista della regione.
Se da un lato la bassa affluenza (solo il 37% dei 6,4 milioni aventi diritto al voto), l’autogestione del processo e l’assenza di meccanismi computerizzati per evitare brogli, hanno fatto sollevare delle inevitabili critiche, dall’altro Madrid non può tacere la rilevanza del risultato. C’è già chi parla di indire un referendum come quello che a ottobre ha animato Scozia e Regno Unito, e chi parla con vaghezza di federalismo; tuttavia come gli indipendentisti decideranno di capitalizzare sulla vittoria e quali saranno le risposte del primo ministro Rajoy saranno argomento di questi giorni.
Certo è che a fronte della scelta dell’Europa di non commentare ufficialmente il risultato e a fronte della dichiarazione di supporto a Rajoy da parte di Cameron, che ha offerto l’appoggio di colui che “ci è già passato”, la Catalogna ha avuto la dimostrazione del coraggio del proprio Presidente – nei confronti del quale la procura di Stato sta perfezionando una querela – e del commitment di questo per la causa indipendentista.
Evitando di entrare nel merito di speculazioni sull’effettivo impatto socio-economico e politico di un ipotetico distacco della Catalogna si può asserire che, per quanto simbolicamente, il primo round di questa complessa partita è stato vinto dalla comunità indipendentista.