Le Elezioni Americane sono arrivate al verdetto finale: Donald Trump è presidente. Deal with it.

Sorry I kept you waiting, complicated business”, inizia così il regno del nuovo re d’America: The Donald.

 

Per Hillary è stata una débâcle a trecentosessanta gradi, in cui la candidata democratica è riuscita a perdere tutto il vantaggio con cui partiva, oppure è sintomo di un problema più profondo e non solo circoscritto al contesto americano?

 

Partiamo dall’inizio: com’è successo?

È da tempo che sostengo che The Donald avrebbe vinto. Da prima delle primarie per l’esattezza (ma non da prima di Matt Groening). Seguo attentamente la stampa americana, per lo più quella di centro e di sinistra, e una presenza ubiqua su tutti gli outlet informativi come quella del nuovo Commander in-chief americano era uno dei segni inequivocabili della sua futura ribalta.

 

 

L’arrogante stampa americana non lo ha mai preso sul serio. Iniziò schernendolo quando in una rincorsa all’hype continua si presentò nella hall di un hotel gridando di fronte a un pubblico di persone (alcune delle quali pagate per star lì): “I am officially running for President of the United States of America”. Dovrà prenderlo sul serio ora che è il 45° presidente americano.

 

 

L’incapacità di interpretazione del pubblico mostrata dai giornali americani e del mondo è stata a dir poco disarmante (di più disarmante forse c’è solo l’incapacità di interpretazione da parte del partito Democratico). Prima la sottovalutazione del candidato GOP poi, quando anche le agenzie di scommesse hanno iniziato a abbassare le quote, l’attacco continuo e perpetuamente vano contro la sua persona, e poi la disperazione finale dell’ultimo mese – specie dopo l’Emailgate – con endorsement ormai inefficaci da parte di tutte le testate, addirittura il The Economist è sceso in campo per i Dem.

 

In economia si studia di come i media influenzino il comportamento, ed è proprio per questo che hanno una responsabilità verso di noi. Hanno fatto il gioco del The Donald, e ora dovranno farci i conti. L’errore che chi svolge il lavoro di osservatore e commentatore spesso commette è quello di restare nei suoi panni mentre conduce una valutazione, invece di immedesimarsi in quelli di coloro che vorrebbe valutare. L’approccio scherzoso nei confronti del “milionario della TV con i capelli arancioni” l’ha reso un personaggio a cui siamo disposti a passare di tutto (aperto razzismo, apologia di fascismo, incitazione alla violenza, menzogne e totale assenza di una relazione tra affermazioni e realtà, completa impreparazione per la gestione di una superpotenza mondiale) e ha permesso che il discorso politico fosse un addobbo di poca importanza per una campagna incentrata sull’urlare a scandali e corruzione. I media l’hanno reso la scelta dell’elettore indeciso, dell’elettore arrabbiato contro il sistema, dell’elettore medio insomma.

 

Se un grosso ruolo in questa débâcle è stato giocato dai media, un’altra parte importante è stata quella che ha svolto il Partito Democratico. Forse aspettavano la quinta stagione di House of Cards per capire qualcosa in più sulla politica americana, ma – come scriveva ieri il The Nation, poi ribattuto dall’Internazionale: “Contro le idee di Trump serve più sinistra”. Forse la soluzione era nelle mani del Partito Democratico già da tempo e si chiamava Bernie Sanders, come ha scritto stamani l’Independent. Egli avrebbe cavalcato le stesse onde populiste, e di ribellione contro il sistema, senza però aver intenzione di bandire i musulmani o costruire un muro tra America e Messico. Thomas Piketty scriveva sul Guardian in un editoriale su Bernie Sanders, anch’egli senza nemmeno considerare la possibilità di una vittoria del partito Repubblicano, “Sappiamo tutti che stravincerà Hillary, ma Bernie ci avrà comunque insegnato che una nuova politica è possibile”.

 

Niente di più sbagliato caro Thomas, e ancora una volta l’errore menzionato sopra: osservare un fenomeno, mantenendo i piedi nelle proprie scarpe.

 

bernie-sanders

 

E ora cosa aspettarsi?

 Lo scorso maggio ero a New York e parlavo con amici americani – anch’essi incapaci di osservarsi dal di fuori e in maniera razionale come Piketty e compagnia bella – della concreta possibilità che The Donald diventasse il nuovo presidente. NY è una bolla democratica e tutti mi ridevano in faccia dicendomi: “Se succede me ne vado in Canada”. Questa mattina la chat robotica del magazine Quartz mi svegliava informandomi che “Canada’s immigration site just crashed”.

 

Ironia che non mi ha fatto ridere.

 

Caro Mondo sostenitore del progresso umano e di una società libera e connessa, cosa vogliamo apprendere dai due schiaffi in faccia appena presi da Brexit e dalle elezioni americane? Che le masse sono incazzate, il populismo si inserisce come una zeppa in un contesto globale che può essere positivo in aggregato, ma non a livello dei singoli individui che compongono tale aggregato. Le persone stanno male, la disuguaglianza economica tra stati (almeno per quanto riguarda i developed countries) diminuisce ma contestualmente la disuguaglianza interna agli stati aumenta. Le classi ricco-borghesi non sono capaci di realizzarlo, fino a quando non ci sono plebisciti popolari che fanno vomitare alle masse tutto l’odio che serbano nei confronti di un sistema, quello capitalistico, da rivedere da principio.

 

Per queste ragioni arriva a prevalere la scelta di pancia sulla scelta razionale. Le classi medie non ne possono più, e come già ci ha insegnato la storia in passato, provano a trovare una soluzione in un voto di protesta.

 

La politica è distante dal cittadino. Si pensi ad esempio alla sterile freddezza della campagna di Hillary Clinton e si confronti con quella del The Donald. Non si è saputo pressoché niente della vita privata di Hillary, fino a poco tempo fa – quando John Podesta ha finalmente capito che per governare un paese si deve far entrare quel paese nella vita del candidato; per The Donald, sia grazie al passato nello showbiz che per i suoi grattacieli che spuntano come funghi per il paese, tutto è sempre stato chiaro e aperto. Una campagna volgare, ma più vera di quella di Hillary. Capace di insinuarsi sotto la pelle dell’elettore medio deluso e iniettarvi una super dose di American Dream alla riscossa.

 

Elezioni Americane

 

Cosa fare dunque?

 Di schiaffi ce ne sono altri in arrivo. Il mondo sta cambiando, e non è tutto rose e fiori. Lo spettro del trumpismo e brexitismo cala ovviamente sui prossimi appuntamenti politici europei: primo tra tutti il referendum costituzionale italiano del 4 dicembre (suvvia non venite a dirmi che non è un voto politico).

 

Chi al potere dovrebbe iniziare ad ascoltare i populismi, perché portano un messaggio potente anche se non necessariamente giusto. Per chi governa, la priorità è quella di fare il meglio per il suo popolo non solo per il suo elettorato e la sua rielezione. E inglobare tali sentimenti nelle agende politiche permetterebbe di discuterli prima che esplodano in qualcosa di incontrollabile.

 

Ancora, i sistemi incentivistici della politica sono sbagliati, e eventi “inattesi” dai sostenitori dell’establishment come questi non vengono mai letti come un qualcosa per crescere e capire, ma ricevono risposte rigide e di chiusura. L’equazione della vecchia politica non trova più soluzione in un mondo cambiato, alterato da un progresso tecnologico molto più rapido di quello sociale. Abbiamo già visto i primi esempi di aggregazione diretta delle preferenze proprio nel nostro paese con il fenomeno del Movimento 5 Stelle, e sicuramente negli anni a venire ne vedremo molti altri di esperimenti che hanno come obiettivo quello della democrazia diretta e graduale eliminazione di una classe politica che non è percepita come facente il bene del proprio paese. Saranno i fatti e l’evoluzione della storia a farci capire, ma non è detto che questi vi piaceranno.

 

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