Il Cartello è stato ad Expo e si è spinto oltre le arterie principali del cardo e del decumano per scoprire, e raccontare, i padiglioni 'invisibili'.

Se vi trovaste perfettamente al centro di una sfera cava, il vostro occhio potrebbe democraticamente scrutare ogni oggetto posto sulla sua superficie interna. Basterebbe ruotare di qualche grado la testa e con lo sguardo sareste capaci di abbracciare l’intero spazio circostante, senza ‘discriminazioni’ di sorta.

 

Stendessimo invece su un ripiano questa superficie, ecco che per voi, ancora perfettamente al centro, diventerebbe difficoltoso mirarne le parti più distanti poiché ostacolati da ciò che si trova in primo piano; cadreste ‘vittima’ della prospettiva.

 

Dividessimo infine quest’area in quattro, servendosi di due strade che si incrociano l’un l’altra, ecco che si avrebbe una distinzione quasi classista tra gli oggetti: tutto ciò che si trova lungo i bordi delle arterie risulterebbe infatti in risalto rispetto al resto. Solo ‘avventurandovi’ al di fuori di queste scoprireste ciò che è celato alla vista.

 

E ad EXPO è proprio ‘avventurandomi’ fuori da cardo e decumano (le due strade principali che percorrono l’area espositiva) che ho avuto modo di scoprire una manifestazione diversa, più sommessa ed umile ma non per questo meno affascinante, celata dalle architetture ardite dei padiglioni principali e dal flusso isterico di migliaia di visitatori.

 

Afghanistan: “Calpesta la guerra”

Ho visitato l’Afghanistan; in realtà questo paese non possiede neanche un vero e proprio padiglione ad Expo ma, grazie al lavoro di un’organizzazione dal nome ‘Calpesta la guerra’, è possibile ammirare, e letteralmente ‘calpestare’, tappeti di propaganda politica e militare provenienti dallo stato asiatico. I cosiddetti ‘tappeti di guerra’ apparvero negli anni 80’ a seguito dell’occupazione sovietica dei territori afghani e furono utilizzati dai mujaheddin come strumenti di propaganda contro l’invasore. Più di recente il regime talebano se n’è servito per far proselitismo e inneggiare alla guerra contro gli anglo-americani e alla jihad: kalashnikov, granate e carri armati hanno preso infatti il posto di più usuali motivi geometrici e floreali, trasformando così questi manufatti in veri e propri inni alla violenza e ribellione.

 

Il Cluster delle zone aride

Mi sono poi diretto al Cluster – padiglione che racchiude diverse nazioni, accomunate da vicinanza geografica e/o tematica – ‘delle zone aride’, un’area dell’esposizione leggermente più periferica, dove sono rappresentati paesi come Somalia, Palestina, Liberia. Ed è proprio la presenza di quest’ultima che colpisce la mia curiosità: com’è possibile che uno dei paesi più poveri e violenti al mondo sia qui a EXPO? La Liberia è stata infatti teatro di due sanguinose guerre civili (1989-1996 e 1999-2003) che ne hanno completamente distrutto l’economia; la più recente epidemia di ebola poi, non ha fatto altro che aggravare una situazione già disperata.

 

Alla scoperta dell'altra EXPO

‘Cluster delle zone aride’, foto dell’autore

 

Entro nello stand, e la sorpresa è ancor più grande: accanto a oggetti di artigianato africano, dei babà, cannoli siciliani e creme di pistacchi. “Cosa ci fa qui questa roba?”, mi risponde prontamente un ragazzo sulla trentina di nome Nicolò, raccontandomi una storia fatta di solidarietà e altruismo. Le aziende ‘La Torretta’ (Agrigento) e ‘Sapori di altri tempi’ (Lamezia Terme) si erano infatti impegnate affinché la Liberia fosse presente a Milano: “senza un nostro diretto impegno economico sarebbe stato impossibile per lo stato africano essere qui. Abbiamo sovvenzionato noi lo stand, facendoci carico delle spese di affitto e di gestione”. Prosegue poi rivelandomi come il ricavato dalle loro vendite verrà interamente devoluto ai bambini liberiani rimasti orfani a causa dell’ebola.  “A quanto ne so io, siamo gli unici a fare beneficenza qui ad EXPO”.

 

Parlando ancora un po’ mi mostra una bottiglia d’amaro “che si chiama ‘Amaro del Boss’; lo so, è tristemente ironico visto che la mia azienda è siciliana”, ma in definitiva anche la mafia fa parte della storia della sua terra e sarebbe più colpevole negarlo invece che berci un po’ su.

 

Il Cluster delle Isole, mare e cibo

Dopo un buon caffè con Nicolò, continuo il mio peregrinare verso un altro cluster tematico, detto delle ‘Isole, mare e cibo’, per ‘recarmi’ in Corea del Nord.

 

Il padiglione non è che una piccola stanza di circa 125 metri quadri rassomigliante più ad un negozio di souvenir, con cartoline, poster e cosmetici ammassati qua e là lungo le pareti. Ovunque immagini propagandistiche con scritte in coreano indecifrabili ma dall’evidente sapore retorico, oltreché gigantografie di piante di ginseng: “in Nord Corea sono ritenute molto importanti per le loro proprietà benefiche sul metabolismo”. A parlare in un inglese un po’ stentato una ragazzina molto minuta di nome Pae Ok, originaria di Pyongyang. Le domando se è la prima volta per lei in Europa: “in realtà sono già stata in Olanda un paio di anni fa per una fiera molto importante”. L’Europa le piace, ma dalle sue parole non traspare l’intenzione o il desiderio di rimanere qui nel vecchio continente. C’è anzi in lei una fierezza per le sue origini quasi antica, eroica. Forse affrettatamente, decido di alzare un po’ il tiro e le chiedo: “una curiosità, qual è la tua opinione a proposito del vostro presidente Kim Jong-Un?”; la parola ‘opinione’ sembra decisamente turbarla. E mi torna alla mente il libro di Suki Kim (Without You, There Is No Us: My Time with the Sons of North Korea’s Elite) in cui l’autrice racconta della sua esperienza di professoressa in una università nordcoreana, dove alla futura élite del paese non veniva insegnato a pensare ma ad obbedire. L’intervistata però si ricompone in un attimo, e fermamente risponde che “è straordinario, molto bravo”. “Ed il padre e predecessore al governo?” Continuo incalzante, “the same” mi dice lei.

 

Alla scoperta dell'altra EXPO

Padiglione Nord Corea, foto dell’autore