Le implicazioni della pellicola di Tom McCarthy per la Chiesa.

Per chi ancora non lo sapesse, Spotlight è il nome della squadra di giornalisti d’inchiesta del Boston Globe che tra  il 2001 e il 2002 ha resi pubblici i crimini di pedofilia perpetrati da numerosi prelati dell’arcidiocesi di Boston. La denuncia dell’omertoso sistema soggiacente è valsa al giornale un premio Pulitzer e una ricostruzione cinematografica firmata Tom McCarthy, dal 18 febbraio 2016 disponibile anche nelle sale nostrane. Inutile dire che questa versione in chiave secolare di Tutti gli uomini del presidente (sullo scandalo Watergate che travolse l’allora presidente degli Stati Uniti Richard Nixon) si presenta alla notte degli Oscar con ben 6 nomination. Si perché se il film è definito da molti come un capolavoro di sobrietà, il soggetto lo è un po’ meno e l’indignazione generale si rispecchia nel successo della pellicola; tanto più che i termini “pedofilia” e “chiesa cattolica” ricorrono sempre più spesso sulla stampa internazionale degli ultimi tempi. Nel Belpaese, pero’, la vicenda non è nota ai più e Spotlight getta luce sul lavoro di Spotlight. Purtroppo l’Italia è ancora un mondo dove la macchia della pedofilia si nasconde bene sotto l’abito talare. Un mondo dove i bambini, a detta di don Gino Flaim, cercano affetto e qualche malaugurato prete “puo’ anche cedere”. Un mondo dove i pedofili possono essere capiti e gli omosessuali no.

 

Le esternazioni di don Flaim, rilasciate nel 2014, non sono un episodio isolato. Nonostante le dichiarazioni del Vaticano in merito alla nuova politica di intransigenza verso i responsabili di abusi sui minori, vari fatti che seguono le promettenti parole di Bergoglio non lasciano presagire un cambiamento imminente. «I vescovi non sono obbligati a denunciare gli abusi sui minori compiuti da preti», ha recentemente affermato monsignor Tony Anatrella, membro del Pontificio Consiglio per la Famiglia, screditando le linee guida antipedofilia pubblicate dalla Congregazione per la dottrina della fede in data 3 maggio 2011. Paralleleamente, l’avvocato Peter Saunders, specializzato in cause di abusi commessi da sacerdoti e membro laico della Pontificia Commissione per la tutela dei minori, veniva messo da parte dopo aver rivolto numerose critiche ai membri dell’organo voluto da papa Francesco nel 2014. «Nulla è cambiato in questi anni in termini di trasparenza quando in Vaticano si devono affrontare casi di abusi su minori», avrebbe in seguito sentenziato un Saunders risentito per l’inefficienza della santa sede. La percezione che traspare dal resoconto di tali vicende è una cacofonica disarmonia di risoluzioni e condanne a cui fa seguito un immobilismo capace solo di contribuire al sentimento d’impotenza delle vittime. Così come avviene in altre istituzioni, i “colletti bianchi” della Chiesa di Roma sembrano operare al di sopra della legge.

 

Sarebbe tuttavia una leggerezza non scorgere una timida esigenza di cambiamento nella condotta di un pontificato alla ricerca di rendenzione come quello di papa Francesco. Oltre ai maldestri tentativi di ammodernameno, vi sono anche le salde prese di posizione come l’inserimento dei reati di tortura e pedofilia nel codice penale Vaticano, avvenuta nel maggio del 2014. Riconoscere l’esistenza del problema è il primo passo verso la risoluzione. Certamente, ma ditelo alle vittime che attendevano con ansia il verdetto di un caso esemplare come quello di Josef Wesolowski, nunzio papale a Santo Domingo, accusato di essersi macchiato di molteplici reati a sfondo sessuale. Richiamato a Roma per un processo esemplare, Wesolowski è stato ricoverato il giorno della prima udienza a causa di un malore improvviso. Secondo le ricostruzioni de il Fatto quotidiano, Wesolowski sarebbe stato tenuto in osservazione in seguito ad un banale calo pressorio, dovuto all’assunzione di alcol e farmaci, prima di rientrare al Collegio dei Penitenzieri dove avrebbe poi trovato la morte. La sua condizione non era critica e i misteri che avviluppano lo stato più piccolo del mondo creano, ancora una volta, una coltre impenetrabile agli occhi dei media incapaci di riscostruire con precisione l’accaduto.  

 

Questo stillicidio di abusi e silenzi non lascia comunque tutti i memnbri del clero insensibili alla questione. Il Consiglio per la verità, la giustizia e la guarigione, composto dai cinque arcivescovi delle più importanti diocesi australiane, ha sottoscritto nel dicembre del 2014 un dossier sugli abusi commessi ai danni di 1600 vittime. Più del 60 % degli ascoltati ha dichiarato di aver subito molestie in “luoghi cattolici” quando aveva fra i 9 e i 10 anni. Per salvare la faccia in caso di misfatto, i vertici della Chiesa e le autorità affini hanno optato per il trasferimento dei responsabili in altre diocesi piuttosto che consegnarli alla giustizia, proprio come è avvenuto nell’arcidiocesi di Boston. L’occultamento delle prove è senz’altro una delle azioni più abiette cui Vaticano si sia mai consacrato e la Chiesa australiana sembra finalmente voler prenderne le distanze.

 

Sempre sullo stesso rapporto si legge: “Il celibato può causare atti di pedofilia”. Che basti dunque abrogare il celibato ecclesiastico per prevenire altri crimini nel futuro? Forse si tratta di un primo passo nella giusta direzione. Quanto ai provvedimenti disciplinari nei confronti di coloro che hanno rovinato le vite di migliaia e migliaia di minori, serve ben altro.