Il doping di stato è tua mamma che ti vuole più forte degli altri.

Il titolo migliore per descrivere il caso di doping di stato che ha visto coinvolta la federazione russa di atletica lo ha pensato Gianluca Ciucci nel suo articolo su L’Ultimo Uomo: “Vincere e Vinceremo”. Mosca ha barato. C’è stato sabotaggio, una “bomba”, nel senso di bombati, di stato.

 

Il capo dell’Agenzia Antidoping di Mosca (ADC), Grigorij Rodchenkov, è accusato di aver distrutto 1.417 provette compromettenti su richiesta diretta del ministero dello Sport e con la collaborazione dei servizi segreti. Ad indagare (e a sgamare) è stata la WADA (World Anti Doping Agency) che alla luce di quanto emerso dalle indagini ha chiesto la sospensione della federazione russa da tutte le competizioni di atletica per due anni, oltre alla radiazione immediata di gente come Marija Savinova e Ekaterina Poistogova, le due medaglie olimpiche londinesi negli 800 metri piani. La richiesta di radiazione è scattata anche per altri tre atleti, quattro allenatori e un dirigente. Il CIO minaccia di revocare le medaglie.

 

Il doping di stato non è una cosa nuova, anzi, ha il sapore della guerra fredda, di quando gli atleti rappresentavano una diretta emanazione dello stato (in gentile concessione dai totalitarismi del ‘900). Dovevano essere spremuti fino al midollo e ci mancò poco che non fosse alterato artificialmente pure quello. Per prima ci cascò la Germania Est, poi anche gli Stati Uniti. Infine la Russia, per citare i più eclatanti (perfino la Finlandia ha avuto il suo doping di stato). Emanuela Audisio su la Repubblica del 10 novembre parla di corpi come contenitori di gloria.

 

Il doping di stato è tua mamma che ti vuole più forte degli altri. Vuoi bene a tua mamma? Sì. E allora manda giù le pillole azzurre. Cresci, gareggia, vinci. Onora il tuo paese. Fatti largo tra i nemici con la tua arma nucleare: lo sport”.

 

Con il doping di stato è come se l’amore per le forme classiche ritornasse in auge: atleti scolpiti a misura di vittoria, di trionfo, che mentre se ne stanno sul lettino del medico dello sport di fiducia pensano già alle parate in loro onore. Pieno stile putiniano.

 

A capo dell’indagine c’è un certo Dick Pound, il quale non ha escluso che anche altre federazioni sportive russe non siano state contagiate dal doping di stato. Qualche sospetto sembra che ricada anche sugli atleti che hanno partecipato alle Olimpiadi invernali di Sochi che hanno fruttato alla Russia 33 medaglie.

 

Il doping di stato, avrete capito, si intreccia inevitabilmente con la politica estera e con l’attenzione mediatica derivante dalle grandi vittorie dei propri atleti. Nella gara a chi ce l’ha più lungo qualcuno inclina il bacino in avanti e vince. Nella metafora qui proposta di fatto l’atleta è un pene ed è così che forse meglio possiamo descrivere la relazione che c’è tra questa storia e l’anima dello sport. Siamo troppo più giù, non possiamo permetterci di parlarne.

 

Venerdì 13 novembre, il giorno che verrà ricordato soprattutto per i fatti di Parigi, la IAAF (Associazione Internazionale delle Federazioni di Atletica Leggera) ha deciso di sospendere temporaneamente la Russia dalle competizioni di atletica leggera, accogliendo la richiesta di Dick Pound.

 

Per concludere una guerra senza troppi spargimenti di sangue si fanno combattere i campioni dei due eserciti. La cinematografia, la mitologia, la letteratura ci hanno offerto molti esempi. Con il doping di stato ci si assicura che il proprio campione sia senza dubbio il migliore in pista (o in campo, o in piscina, o sul ring).