Come la campagna elettorale per il Referendum Costituzionale si è trasformata in un immondo ginepraio.

 

La tormentata e controversa campagna elettorale per il Referendum Costituzionale che ci ha accompagnato negli ultimi mesi volge finalmente al termine. Nella confusione generale vi è almeno una certezza: il 4 dicembre i cittadini italiani saranno chiamati alle urne per decidere se confermare o meno la riforma costituzionale. Solo una volta scongiurata la paventata ipotesi di differimento del voto causa terremoto nel centro Italia e una volta rigettati i ricorsi che impugnavano il quesito referendario la tornata elettorale ha assunto il crisma dell’ufficialità.

 

Ricordando poi come il mare d’inverno risulti malinconico ai più, è presumibile che per una volta gli italiani non diserteranno le urne per sollazzarsi nell’euforia dei primi bagni estivi.

 

“Hanno creato un clima infame”.

 

Un “clima infame” per dirla alla Craxi, ha tuttavia pervaso il dibattito politico, appiattendolo su slogan tanto vuoti quanto roboanti e su giravolte propagandistiche e stravaganti.

 

Partendo dalle accuse reciproche sulle accozzaglie che compongono i due opposti schieramenti. Il fronte del Sì vede il Governo e il suo premier Renzi come capofila, sostenuti dalla maggioranza del partito e dalle ormai stabili stampelle alfaniane e verdiniane.

 

Le formazioni del No, coalizzano le minoranze e fanno il gioco delle strane coppie. Berlusconi e D’Alema. Grillo & Salvini. Tutti insieme appassionatamente. Convinti ed uniti dall’idea di mandare a casa Renzi ed il suo establishment in caso prevalenza di croci sul lato destro della scheda.

 

Sì, il “mandare a casa Renzi” si è trasformato nel quesito referendario.

 

Sicuramente, il boy scout di 41 anni – come ama definirsi il premier – ha commesso un errore marchiano personalizzando la riforma costituzionale e annunciando spavaldamente un passo indietro in caso di sconfitta, ma le opposizioni si sono accodate, arroccandosi sulla campagna personalistica. Entrambi i fronti compatti e schierati nel tradimento di un prezioso momento di democrazia partecipativa a vantaggio di una schizofrenica campagna politica.

 

I cittadini, salvo qualche raro caso virtuoso, ancora una volta si son agiatamente piegati alla dinamica da stadio promossa dai loro leader, più comoda e meno impegnativa di un reale e consapevole interessamento alla riforma, comportante un inevitabile studio di una materia complessa e non di facile comprensione. È più agevole ripetere gli slogan confezionati del politico di turno, che tentare di comprendere la portata del Referendum e il nuovo abito che si vuole cucire alla nostra Costituzione.

 

La strisciante tendenza alla “dichiarazia” e l’imbarbarimento del confronto politico, pressurizzato in cinguettii di 140 caratteri (sigh), hanno generato un tourbillon di cantilene e litanie frequenti e numerose, di certo poco orecchiabili per uditi istruiti. E tra un Ponte sullo Stretto e un Pinochet che rinasce Venezuelano, tra scontri grotteschi sull’interpretazione delle presunte posizioni del Financial Times e dell’Economist, la stampa nazionale ha fatto propri i ritornelli della politica, amplificandoli e travasandoli sui social. Ecco alcuni dei – facilmente confutabili – cavalli di battaglia dei due fronti opposti, costantemente impegnati a immaginare scenari apocalittici nel caso di vittoria dello schieramento avversario, ma poco inclini e forse incapaci di saper tradurre in modo adeguato le ragioni sottese al Sì, e al No.

 

Il Referendum Costituzionale 1

[Fronte del Sì]: Se vince il No ci teniamo questa Costituzione per altri trent’anni. E’ un’occasione unica per ridurre i tagli della casta. Il No è come la Brexit ed è un rischio per l’Euro.

 

Il convinto fronte governativo sostiene che da decenni si tentano riforme costituzionali senza mai portarne alcuna a termine. Falso. Dal 1989 sono state approvate 13 leggi di revisione costituzionale, emendati 30 articoli e abrogate 5 disposizioni.

 

Nel clima giustizialista post Tangentopoli venne limitata l’amnistia e furono ridotte le immunità parlamentari, in quello garantista agli albori del nuovo millennio fu modificato l’art. 111 con le garanzie sul giusto processo. Nel 2001 venne approvata la riforma federalista del Titolo V e nel 2012 fu introdotto l’obbligo del pareggio di bilancio dal Governo Monti.

 

Appare fiacca e sterile anche la giustificazione della Riforma con i tagli alla casta: tralasciando le imprecisioni e le bugie del balletto sulle cifre, si potrebbe agire sui costi della politica attraverso la legge ordinaria e i regolamenti parlamentari. Non si stravolge una Costituzione per dimezzare i costi del Senato. O quantomeno non se ne fa la ragione principe.

 

Da ultimo, la visione apocalittica, nel caso di vittoria del NO, che prevede un’avanzata dei populismi in stile Brexit e la messa in pericolo della nostra appartenenza all’Eurozona. Ora, la convivenza tra Costituzione e moneta unica dura da quasi vent’anni, e non sarà una mancata modifica al testo costituzionale a metterla in discussione. L’erosione di sovranità del nostro Stato ha preso piede con i trattati europei del 1992, che hanno consegnato le leve per governare la politica economica nazionale alla Commissione Europea e alla Bce. 

 

Restare allo status quo, avrebbe sì conseguenze politiche (indebolimento del Governo e possibili elezioni anticipate) ma non della portata catastrofica che si vuole far credere.

 

[Fronte del No] La Riforma Costituzionale è materia delle Camere e non del Governo. Se vince il Si ci sarà una deriva autoritaria, verrà smantellata la nostra Costituzione social-democratica ed un’oscura oligarchia piegherà il Paese ai voleri di J.P.Morgan e della finanza internazionale.

 

La materia costituzionale è di attribuzione esclusiva delle Camere e il Governo non può farsi promotore di una riforma costituzionale. Falso. La nostra precedente esperienza repubblicana ci racconta deI Governo costituente di De Mita, del Governo Amato promotore della Riforma del titolo V del 2001, della Devolution firmata dal ministro Bossi nel 2005 e del suddetto obbligo di pareggio di bilancio introdotto dal Governo Monti. Prove tangibili che smentiscono tale assunto.

 

La fine del bicameralismo perfetto mantiene in vita Camera e Senato, ma solo alla prima accorda preminenza legislativa e politica, attribuendole poi l’esclusivo potere di accordare o revocare la fiducia al Governo. Se è vero che un’unica Camera dominata da un unico partito (effetto del combinato disposto riforma-Italicum) ed espressione della maggioranza rinvigorirebbe molto il Governo, occorre ricordare come nessuno dei 47 articoli della riforma vada ad intaccare le attribuzioni dei garanti: la magistratura, la Corte Costituzionale, il Presidente della Repubblica. L’assenza di espliciti contrappesi al deficit di potere legislativo potrebbe essere bilanciata dai limiti previsti dalla riforma stessa, come il parere preventivo della Consulta sulla legge elettorale, e l’argine alla deprecabile e ormai consolidata tendenza a legiferare attraverso decreti – legge e voti di fiducia.

 

Riguardo l’elezione dei senatori, la cui disciplina è rimessa all’accoglimento di proposte future, si ricorda come la loro elezione diretta – cruccio imprescindibile per i detrattori della riforma – non sia prevista né in Francia, né in Germania e né in Inghilterra. Sì, proprio quell’Inghilterra che con il voto sulla Brexit ha spernacchiato Commissione Europea, J.P. Morgan, e la finanza internazionale. Siamo davvero così sicuri che la vittoria del Si comporti un’automatica deriva autoritaria pilotata da poteri occulti?

 

Chiosa finale su rapporto stato – regioni, partecipazione referendaria e nuovo iter legislativo.

La riforma accentra il potere, dimezzando funzioni e competenze delle Regioni e spazzando via le Province. Lo Stato si riappropria di quei poteri che con la sbornia federalista aveva attribuito agli enti locali, rinfoltendo le prerogative degli apparati statuali centrali e di riflesso attribuendo maggior campo d’azione a Premier e super dirigenti pubblici.

 

Dal fronte opposto, appare impossibile giudicare positiva l’esperienza simil-federalista del Belpaese, non foss’altro per i 521 consiglieri regionali – dalle Alpi all’Etna – indagati per l’uso illecito dei fondi pubblici destinati all’attività politica.

 

In materia di partecipazione, la riforma aumenta sensibilmente le soglie per l’iniziativa popolare (da 50 a 150 mila firme per l’iniziativa legislativa popolare; da 500 a 800 mila firme per il referendum abrogativo) ma abbassa il quorum e garantisce discussione e deliberazione in sede parlamentare, in modo da porre termine all’antipatica prassi attuale che relega al dimenticatoio le proposte di iniziativa popolare. La disciplina e le tempistiche dei nuovi referendum sono rimesse però ad un mosaico di leggi di attuazione e di regolamenti parlamentari. Si ricorda come la precedente regolamentazione dell’istituto referendario, risalente al 1970, ha atteso 22 anni dall’entrata in vigore della Costituzione del 1948.

 

Una compiuta analisi del celebre articolo 70, contenitore del nuovo iter legis, presuppone uno studio non affrontabile in questa sede. Il novellato procedimento legislativo non brilla per chiarezza e capacità di sintesi, e sicuramente non è stato firmato da menti lungimiranti e penne abili come il Calamandrei. Dovrebbe però essere più veloce dell’attuale e non causare enormi problemi d’interpretazione ed applicazione. Fermo restando che la qualità del prodotto legislativo continuerà a dipendere principalmente dalla bontà delle intenzioni politiche e dalla imprescindibile qualità del legislatore. 

 

Un’occasione persa.

Piuttosto che di una campagna elettorale connotata da slogan mendaci e toni aggressivi, da scenari prospettati in maniera strumentale e privi di analisi controfattuale, il paese avrebbe senz’altro beneficiato di una riflessione partecipata e condivisa, figlia di un dibattito sano e serio sulle tematiche costituzionali.

 

Al contrario, l’atteggiamento dei competitors politici, rilanciato dalle bufale ad orologeria dei media schierati e fatto proprio dagli annoiati e impigriti cittadini, ha senza dubbio umiliato quei famosi “lacrime e sangue” versati per la nostra Costituzione, fondamentale e comune baluardo della democrazia e dei diritti.

 

A questo punto, auspicando un’utopistica eliminazione del suffragio universale a danno di quei cittadini che non andranno a votare per chissà quale ridicola ragione, non mi rimane che augurarvi un buon voto, libero, consapevole ed informato.

 

 Il Referendum Costituzionale 2

 

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