Immigrazione: una indagine su quell’universo invisibile che è il Bangladesh romano.

Una cosa che non ho potuto fare a meno di notare, tra l’infinità di cose che non si può fare a meno di notare nella Città Eterna, è la massiccia presenza di immigrati del Bangladesh. Questo fenomeno, se da una parte ha contribuito a far salire le mie skills di “rifiuto delle rose” da base ad avanzato, dall’altra ha alimentato una certa curiosità nei confronti di questo universo invisibile che è il Bangladesh romano.

Oltre alla visibile presenza di “rosari”, venditori di rose presenti in tutte le principali città d’Italia, a Roma vi sono altri due ruoli ricoperti da ragazzi bangladeshi: il lavavetri e l’aiuto clienti alle pompe di benzina – mi riferisco ai ragazzi che lavorano durante l’orario self-service. Probabilmente per l’immenso dolore derivante dalla non rielezione di Iva Zanicchi come parlamentare Europea, dal controllo sulla mente esercitato dalle scie chimiche nonché dalla dieta a base di pasta che il mio stipendio da tirocinante mi permette di concedermi, ho iniziato a pormi delle domande sulla possibile esistenza di una sorta di cupola dietro ai bengalesi che svolgono una delle tre professioni menzionate.

Dopo essermi fatto un giro nella colorata e multietnica Torpignattara – che anche se non è Brick Lane, ha una presenza di abitanti dell’etnia in questione di tutto rispetto – ho deciso di fare alcune domande ad Asimasim, un ragazzo 22enne che lava i vetri al semaforo sotto casa mia. Nonostante le mie (forse eccessive) aspettative, l’intervista si è rivelata utile quanto un culo senza buco dato che il gap linguistico tra me ed il mio amico Asim, non colmabile neanche con l’inglese, non ha permesso di portare le mie indagini dove volevo. In realtà qualche notizia utile sono riuscito ad estrapolarla, ma andiamo per gradi.

La mia prima conoscenza con i sempresorridenti amici del Bangladesh risale a un po’ di anni fa, quando lavoravo nella ristorazione a Firenze. I miei padroni nazifascisti mi intimavano di scacciare gli invadenti rosari che disturbano i nostri avventori. Tuttavia, il generale senso di rifiuto di un certo tipo di potere mi portò a diventare amico di quelli più gentili, che lasciavo entrare di sgamo nel locale, facendo finta di non vederli. La mia amicizia con il mondo Bangla si è poi consolidata in un successivo episodio, svoltosi a 8mila metri di altezza su un volo della compagnia Airbangladesh, mentre tornavo da un viaggio esotico. Il mio vicino di posto era originario di Dhaka e, dopo avermi sorpreso rispondendo al mio: “Hi, what’s your name?” con un calorosissimo: “A bello, me chiamo Nazim, faccio er fornaro”, ha tradotto per me il messaggio che il capitano aveva diffuso dagli altoparlanti nella sua lingua. Dandomi così la lieta notizia che stavamo facendo una sosta ad Abu Dhabi perché il carburante stava finendo. La buona fede e la simpatia di quell’uomo, che mi hanno fatto valutare se riunirmi al gregge di Gesù Cristo una volta baciato il suolo a Fiumicino, mi sono sempre rimaste nel cuore.

Immigrazione: una indagine su quell'universo invisibile che è il Bangladesh romano.
via Flickr 

Alla luce dell’affetto che nutro per questa etnia, mi son sentito in dovere di indagare per sbarazzarmi della teoria complottista che si è annidata nella mia mente, che ogni tanto si impossessa di me portandomi a domandarmi: esiste un Don Rosario a capo della Banglamafia? Vi è una sede segreta dove avviene la distribuzione tra i vari bengalesi dei semafori, benzinai e piazze romane? Una volta avvenuta la distribuzione, si deve pagare un pizzo per mantenere la propria zona? I bengalesi vogliono pijarse Roma?

Qui rientra in gioco Asimasim. Nonostante la nostra conversazione abbia rasentato l’assurdo più di  una novella di Samuel Beckett, sono riuscito ad ottenere delle informazioni di base che mi hanno permesso di allontanare per un po’ le mie angosce sulla Banglamafia. All’opposto, la conversazione con Asim mi ha portato a supporre che la comunità bengalese romana sia il popolo  segretamente eletto da Carlo Marx per mettere in pratica la sua teoria comunista, tanto evidenti erano i concetti di fratellanza, di condivisione e di uguaglianza. Asim ha tracciato i rincuoranti contorni di una collettività pacifica che si aiuta nel difficile task dell’integrazione in terra straniera.

Tuttavia la cosa non è bastata a farmi smettere di pensare alla possibile esistenza della Banglacupola e così ho smosso i miei contatti per effettuare altre interviste sul campo, per dare una risposta finale alle mie opprimenti domande. Su tutte: esiste (e come funziona) una sorta di Banglamafia o, piuttosto, gli immigrati Bangladeshi sono un modello di aiuto fraterno da cui imparare?

To be continued..