Come una vacanza in Vieste può trasformarsi in un’accurata riflessione sul traffico illegale del mare.

Fine vacanze. Ultima settimana. Era rimasto davvero poco da fare. Avevo assorbito quasi tutto l’alcool della costa che a sua volta aveva assorbito quasi tutto il mio denaro. Per questo motivo dovetti rifiutare l’invito del mio amicone Fausto a fare “per una volta una cosa costruttiva” ma, tredici euro per fare l’escursione in barca lungo le grotte marine di Vieste, proprio non ce l’avevo. Ne approfittai così per dedicarmi al passatempo migliore da svolgere a costo zero: l’ozio.

 

In preda ad effettuare un leggiadro giro nello showroom dei cazzi miei, inizio a scivolare nella scodella cremosa dei sogni, quando vedo il sole eclissarsi dietro la sagoma maleducatamente grossa di Fausto che mi guarda con quella paternale sufficienza che assume sempre quando mi vuole fare un favore senza darmi il peso di dimostrargli gratitudine e tira fuori dalla tasca del costumone un rettangolo di carta lilla e me lo butta addosso dicendomi “Prendi. Vieni con me e Barbara, ci troviamo alle tre all’imbarco sugli scogli.” Cercavo di risalire in fretta dall’oblio dove mi ero ficcato per dirgli qualcosa, anche se non un ringraziamento, almeno il segno non verbale di codifica delle sue parole. “Armeno te fai ’na curtura”, aggiunse in quel romanesco che lo faceva sembrare meno colto di quanto fosse, anche in questi casi non voleva farmi pesare mai niente.

 

Anticipai l’orario del pranzo per andare in barca con lo stomaco semi vuoto in modo da non rischiare figure di merda, non c’ero mai stato, su una barca, quindi meglio prevenire che offrire il mio pranzo dallo stomaco direttamente in pasto ai pesci. Mi avviai in anticipo. Arrivai in ritardo. Tutti i partecipanti erano già sistemati sulle panche della Paloma con il kit da escursione: zainetto con telecamera, fotocamera, videocamera, creme e cremine dopo sole prendi sole dopo doccia e via spalmando, merendine per i bambini che avrebbero chiesto quando sarebbero tornati a casa già dopo i primi cinque minuti di viaggio e cappelli di varia fantasia. Oddio fantasia, di vario coraggio. Partite muniti di cappello era l’unico consiglio stampato sul biglietto che avvisava che la barca era di quelle scoperte e quindi il sole ce lo saremmo preso tutto in testa. Ma proprio tutto. Del kit da escursione cosa m’ero portato io? Niente. Maglia costume e sandali e via nella speranza che la mia folta chioma nera bastasse a proteggermi dal sole di fine Agosto.

 

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La splendida Vieste

 

Mentre saltellavo sugli scogli per arrivare in fretta alla barca, vidi quello che doveva essere il capitano rivolgersi a Barbara e Fausto indicando verso di me e dopo un fatto con la testa da Barbara vidi l’uomo spingere in avanti una manopola che sembrava una di quelle per spillare la birra e subito dopo sentii il rumore della barca che si metteva in moto Gli avrà chiesto se poteva lasciarmi a terra?” pensai mentre percorrevo gli ultimi metri di scoglio, quando invece voleva solo recuperare un po’ di tempo. Recuperare un po’ più di tempo facendo lo stronzo.

Dopo aver messo il primo piede sullla Paloma mi feci aiutare a mettere il successivo da quello che, invece, doveva essere il marinaio che mi fece scendere nella pancia della barca con un “Mena dai guagliò!” proveniente da una gola levigata dall’olio d’oliva.

Oltre il capitano, gli unici in piedi, Barbara e Fausto. “Oh ragazzi scusate il ritardo, non m’ero reso conto…dove ci sediamo?”, “No caro, noi tre restiamo in piedi. Barbara vuole fare delle foto e dice che così vengono meglio che seduti”.

 

Il capitano prima di spingere in avanti anche la seconda manopola si girò e mi chiese “Come ti chiam?” sforzandosi in un italiano sbattuto su quegli scogli chissà da quanti anni. “Sergio”,  “Sieeenti, i posti qua so centocinquanta e tu sei il centocinquantuno. Se viene la Costiera tu gli dici che lavori con me. Vabbè?” Tanto si vede che sei di qua vicino. Sei ner ner” elargendomi una manata sulla spalla che voleva essere il segno della nostra intesa, e invece rimase il segno per una settimana.

Bene, molto bene. Ero arrivato fuori orario e sarei rimasto fuori legge. E non sapevo che mi sarei sentito a casa.

Gli abitanti di Vieste hanno pochissima fantasia in fatto di nomi maschili, si chiamano Michele o Domenico.

Ormai eravamo lontani, lontanissimi. Si poteva ancora vedere a occhio nudo il punto d’imbarco ma nessuno più si girava all’indietro, gli occhi erano tutti per lo spettacolo offerto da quella costa che in poche centinaia di metri cambiava colore, forme e consistenza delle rocce e della sabbia. Uno spettacolo mozzafiato che aveva convinto la maggior parte dei passeggeri ad accantonare i supporti digitali per godersi tutto dal vivo.  A chi al loro ritorno avrebbe chiesto di raccontare, avrebbero detto, per sinteticità, di comprare pure loro un biglietto.

 

Alcuni tratti di costa sembravano pezzi di roccia mastodontici che niente e nessuno avrebbe mai spostato né tanto meno scalfito, di un bianco così fortemente irrobustito dal calore del sole che sembravano nutrirsene. Mi chiedevo come fosse possibile che il bianco che fino ad allora avevo associato alla neve, al gelo, ora mi sembrava il colore, l’unico possibile, che ogni corpo assume quando il rosso non basta più per esprimere la potenza delle fiamme solari. Mi sembravano, così lisce e tese verso l’alto, lo specchio di quel Dio che ci fanno immaginare nei film quando si manifesta nella sua infinita  potenza  circondato proprio di quel candore rovente.

Altre invece erano contorte e piegate e ripiegate e annodate tra loro, vedendo da lontano le figure degli escursionisti piccoli piccoli, risultava impossibile ripercorrere il loro cammino perché arrivava sempre un punto in cui pensavo “Naaaa, da qua si sarebbero rotti l’osso del collo..”. Creavano nel loro susseguirsi di vuoti e pieni, di sporgenze e rientranze, dei giochi d’ombra che davano ampio spazio alla fantasia di ognuno che ci vedeva quello che voleva. Un po’come delle nuvole di roccia.

 

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Alcuni tratti di costa sembravano pezzi di roccia mastodontici

 

Da subito abbiamo iniziato ad approfittare della vicinanza al capitano-guida turistica per strappargli qualche informazione in più visto che, in genere, si limitava, una volta entrati nelle grotte a prendere il microfono, a girarsi verso i passeggeri e urlare “GROTTA SAN DOMENICO. SIAMO NELLA GROTTA SAN DOMENICO”. Ovviamente subito dopo entrammo nelle grotta San Michele. Dopo un’ora e mezza eravamo arrivati al punto previsto per una pausa in una spiaggetta di pietre che fungeva da confine al territorio Garganico. Una mezz’oretta e poi si ritornava indietro, i passeggeri del turno successivo probabilmente già stavano iniziando a presentarsi all’imbarco.

“Immagino tu abbia fame”, Barbara fino ad allora non mi aveva quasi rivolto la parola tranne per chiedermi di reggerle qualche obbiettivo tra quelli che s’era portata appresso. Si definiva una semplice appassionata di fotografia ma io conosco persone con meno capacità meno fantasia e mezzi meno tecnologicamente avanzati che invece si dicono professionisti.

“Si, un po’ di fame ce l’ho. Mi sono dimenticato…”

“Tutto” sentii Giorgio ammonirmi mentre mi puntava contro una banana calibro 44.

 

Trovammo un posto distante dalla tribù vociante degli altri passeggeri e ci mettemmo lontano dalla riva, proprio dove uno di quei costoni si poggiava a terra fornendoci anche un ottimo schienale e un’ombra quasi solida.

Ci si confrontava su quale grotta ci fosse piaciuta di più quando il capitano, col suo aiutante, si avvicinò e ci chiese: “Mo ci mettiamo qua. Diamo fastidio?”, “No no, si figuri anzi. Le possiamo offrire un po’ di frutta? Un mandarino?”. Perché a me la banana a e a lui i mandarini? Capii presto perché. Barbara era un genio, aveva notato che tutti i viestani coltivavano nei loro giardini alberi di mandarini ma non ne vendevano quasi mai.

Noi gli offrimmo i mandarini, lui ci offrì la sua confidenza.

“L’ho vista la macchinetta che hai”, disse rivolto a Barbara “E’ bella, con quella si fanno le foto! No quegli altri. Ma che vanno facendo le foto coi cellulari? Co’ quelli non si vede nu cazzo”.

Non gli chiedemmo da quanti anni stesse per mare perché la risposta arrivò da sola quando, dopo il primo mandarino e una lunga sorsata di peroni, si tolse gli occhiali alla “The Matrix” che sconciavano con quell’aspetto da vecchio lupo di mare. La pelle che era rimasta coperta dagli occhiali non aveva mai visto il sole e, a differenza del resto del volto che per colore e venature sembrava di mogano, il contorno degli occhi e le due linee che gli arrivavano dietro le orecchie erano di un pallore che nemmeno uno svedese albino nerd ce l’aveva così.

 

Quando poi si tolse la canottiera praticamente si ripropose quel gioco di colore così forte che a vedergli il collo fino alle spalle e la braccia sembravano fatte di legno bruciato; il petto, la pancia e la schiena color marmo lo facevano sembrare una specie di essere assemblato con pezzi di corpi diversi provenienti da zone del mondo opposte.

“Da dove venite?” – “Io da qui vicino, da Foggia. Loro due da Roma” – “Ah! Fuggi da Foggia! Diceva così il proverbio?”. Risata. Degli atri, non la mia.“Ci so’ stato a Roma tanti anni fa, per tre anni” – “Le piacque?”, ormai il discorso sembrava essere solo tra Barbara e il capitano che a modo suo stava conducendoci per un’altra escursione, costeggiando tra i suoi ricordi.

“Ho visto solo Rebibbia”. A quel punto tutti volevano chiedergli il perché ma nessuno aveva il coraggio. Ci pensò lui a rompere il silenzio.

“E secondo voi com’è che ora sto qua a fare ’sto lavoro? A Vieste ’sta costa nessuno la conosce meglio di me, comprese le grotte e tutti i passaggi per mare e per terra che non vi ho fatto vedere perché si passa solo col gommone a quattro posti, massimo. Le correnti non le studio come fanno ora coi macchinari, le so e basta. Ogni tanto quelli della finanza mi chiedono che devono fare e dove andare e come ci possono arrivare. Ora ci parliamo, a volte manco capiscono. Dieci anni fa c’avevo nove figli, cioè li tengo ancora nove figli, mo c’ho pure tre nipoti: due maschi, Michele che si chiama come me e che sta a Milano perché mio figlio ha trovato lavoro là, e Lino (variante smart di Michele) che è nato a Maggio, e una femmina, Lilina che è tale e quale a mia moglie. Quand’ero giovane mia moglie stava attenta a casa e io dovevo portare da mangiare. A pescare non sfami nove figli e quindi ho fatto quella cosa che puoi fare per guadagnare di più quando conosci le vie come le conosco io”. L’avevo capito al volo, avevo letto qualcosa da qualche parte. Stavolta la feci io la domanda: “Facevate lo scafista?”, “Ma quale scafista? Ma che cazzo dici, uagliò? Quelli di mo fanno schifo, si credono che stanno a trasportare le bestie e se arrivano vivi o morti non gliene frega niente! Hai capito? Quelli prendono i soldi dai poveretti prima di partire poi se quelli arrivano vivi o morti so cazzi loro. Lo sai come li chiamano agli extracomunitari? Li chiamano culi bagnati perché loro non vogliono rischiare e siccome non conoscono le scorciatoie che conosco io li lasciano quando stanno ancora al largo e quelli là che stanno carichi di roba si mettono i sacchi con quello che tengono sulla pancia e fanno il morto in acqua finché non arrivano  a riva, se c’arrivano”.

 

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Ma quale scafista? Ma che cazzo dici, uagliò? Quelli di mo fanno schifo

 

“Ma se fanno questo lavoro a largo non dovrebbero essere visti dalla guarda costiera?”

“Eh uagliò tu sei di Foggia e mi fai ‘ste domande! Allora non ha capito. In mare la legge non c’è. Cioè, c’è ma non è la stessa che sta a terra”.

“Si, però a te t’hanno preso”. Fui sgarbato ma la domanda uscì fuori da sola.

“Allora c’ho ragione io che non capisci niente. Tu sei piccolo, te la ricordi la guerra qua di fronte?”. Parlava dell’Albania, i balcani. “Dopo la guerra sia di qua che di là Cristo se n’era proprio scordato, ognuno faceva come voleva e c’era poco da rifiutare. Dopo la guerra, quando l’Italia, la Nato e l’Onu e compagnia cantante se ne sono andati hanno lasciato tutto in mano alle bande di albanesi che si sono trovati con le grotte strapiene di armi che manco loro sapevano quante ne stavano, io ci sono stato là e vedevo i bambini che il pallone non lo prendevano a calci, lo lanciavano in aria e lo usavano come bersaglio con i kalashnikov. Un giorno arrivano tre di questi e mi prendono mentre stavo al mercato del pesce e mi portano da uno che, se stavamo io e lui chiusi in una stanza da soli, lo ammazzavo di botte, però era il capo e nell’ufficio c’aveva una X a terra e non potevi andare oltre quella se non te lo diceva lui. Era altro un metro e dispari e comandava a tutti quanti, c’aveva quei cani neri…come si chiamano quelli che poi impazziscono?”

“I Dobermann?” suggerì Barbara.

“Si quelli. Oh, era così basso che quello ci poteva andare a cavallo. Mi dice “Tu non devi fare niente, ci devi solo far arrivare a terra sicuri. Stai tranquillo che va bene pure a te”.

 

“Che dovevo fare? Ogni mercoledì mi venivano a prendere al porto verso le undici di sera e mi facevano mettere al primo gommone, erano una fila di dieci-venti gommoni, andavamo a prendere le sigarette e poi li guidavo in una spiaggia deserta e per l’ora di pranzo del giovedì avevamo finito. Mi davano cinquecento mila lire e me ne tornavo a casa a piedi”. “Non potevano utilizzarti le prime volte e poi imparare la strada?”. Non mi ripeté che non capivo niente solo perché lui aveva capito che ero in buona fede ma la faccia fu la stessa delle precedenti risposte.

“Impossibile. A parte che stavano sempre drogati e non ci stavano con la testa poi quelli pensavano solo ai soldi che dovevano prendere. Ero insostituibile, una volta gli dissi che era meglio non partire perché stava arrivando una brutta tempesta e quelli -niente dobbiamo partire dobbiamo partire- mi dicevano. E partiamo, dico io. Morale della favola gli ho trovato una grotta abbastanza grande per ripararci tutti quanti dalla burrasca e non si perse nemmeno una stecca. Quando ci ripenso, penso era meglio che facevo finta che non sapevo dove andare così andavamo tutti a mare, io compreso”.

 

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Per il contrabbando ci si mette in mare anche con la tempesta

 

Era sincero, il tono era di quelli che raccontano una cosa irreparabile alla quale hanno preso parte senza però pretendere comprensione, spogli di quella falsa melodrammaticità da finto pentito. L’aveva fatto, punto e basta.

“Quanto è durato questo traffico?”

“A parte che dura ancora. I Primi cinque sei anni mai un problema, poi i giornali hanno cominciato a fare storie ma subito hanno trovato le soluzioni. Mi dici come fai a opporti a qualcuno che quando parla con te tiene a disposizione più armi dell’esercito del loro Paese? Devi dire sempre sì e sperare che accada qualcosa”. La sintassi era incerta ma il pensiero era drammaticamente ragionato.

“Poi hanno iniziato a comprare i macchinoni europei, volevano sembrare per forza occidentali, prendevano gli yacth firmando assegni in bianco, davano agli europei le loro puttane e loro si facevano vedere in giro con quelle europee”.

“Quando si dice l’integrazione culturale”. Ho una passione per le battute di cattivo gusto.

 

“Alcuni nostri complessi turistici li avevano presi loro e sono ancora sotto sequestro. Meno male che alla fine è successo qualcosa, loro quasi non se ne sono accorti, hanno perso una briciola di una pagnotta però almeno a me m’hanno liberato da questa schiavitù e poi sono andato a Roma. Per velocizzare le operazioni di scarico sulle nostre coste pagavano dei ragazzini con centocinquantamila lire per un quarto d’ora di lavoro. Vi rendete conto? La prima volta c’erano dieci ragazzini e, due-tre mercoledì dopo, ce n’erano sulla spiaggia ad aspettarci almeno trenta-quaranta, mi sembrava quando noi nel quarantacinque assalivamo i carri armati degli americani per acchiappare le cioccolate. Ormai non serviva nemmeno più un quarto d’ora, erano tanti, velocissimi. Che è successo, però: a Vieste c’è solo una scuola media con una sola classe. Adesso non c’è più, ora al posto suo ci sta la sede dei vigili urbani che grazie ai turisti fanno guadagnare al comune più degli alberghi. Allora ’sti ragazzi il mercoledì a scuola… non c’andava più nessuno senza dire niente, non è che importava più di tanto, i ragazzi qua da metà Maggio a fine Settembre già lavorano nei locali del paese perché c’è un sacco di movimento l’estate quindi le cose andavano così e basta. L’unico che si incazzava era Mario Caputo, un ebreo di famiglia ricca che è venuto da Pavia a fare l’insegnante. L’ho pure conosciuto, è uno con una testa così ma gli altri quasi quasi lo trattavano come lo scemo del villaggio. Era particolare, scriveva poesie e dipingeva, per qualche anno ha cercato di organizzare un festival di queste cose proprio qua a Vieste. Aveva lezione proprio il mercoledì e dopo un paio di mesi che arrivava in classe e trovava l’aula vuota aveva mandato lettere al preside, al Sindaco, al Presidente della Provincia, a quello della Regione, al provveditorato ma siccome nessuno gli dava retta s’è licenziato e in una lettera sul Quotidiano di Vieste aveva parlato male di tutti dicendo che sarebbe rimasto solo perché il paesaggio gli offriva ancora molti spunti per dipingere. Per protesta non fece nemmeno più il festival. Veramente solo dipingeva. Infatti quando arrivavamo per lo scarico spesso lo vedevo sulla punta vicino Torre dei Saraceni che dipingeva, dipingeva, dipingeva, stava sempre a dipingere, quello. Poi con un’altra lettera al giornale disse “Quello che dovevo fare l’ho fatto, qui non ci voglio più stare, me ne vado e tante grazie”.

 

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Sarebbe rimasto solo perché il paesaggio gli offriva ancora molti spunti per dipingere

 

Lui se ne è andato e visto che i ragazzi il mercoledì continuavano a fare festa, non presero nemmeno un altro professore. Un giorno poi mentre il capo spedizione pagava i ragazzi, bello e buono escono tutti i finanzieri. Non si capiva più niente! Uscivano da tutte le parti: motoscafi, elicotteri, camionette! Non me lo dimenticherò mai. Chi si mise nei gommoni e scappò in bocca alle motovedette dei finanzieri, altri non hanno fatto niente, io mi sono fermato a fare quello che stavo facendo e sono andato verso il capo dei finanzieri, che lo conoscevo pure. Glielo volevo proprio chiedere come avevano fatto a trovare quel posto. Credevo di essere rimasto l’unico a conoscerlo. Lo sapete come mi ha risposto? M’ha detto “Vieni, vieni Michè che ti faccio vedere il nostro navigatore satellitare!”. M’hanno messo le manette e m’hanno fatto vedere. E che c’avevano nella macchina? Il quadro di Caputo! Hai capito a quel grandissimo figlio di puttana! Figlio di puttana nel senso buono! Quello non so come ma aveva capito tutto il movimento e s’era messo tutto quel tempo là sopra a dipingere la cartina per farci acchiappare!”.

 

“Bestiale! E poi che fine ha fatto Caputo?”, Fausto parlò per primo dopo tutto il racconto.

 “Non lo so, ha scritto un libro che raccontava proprio questa storia. Una volta mi venne a trovare in carcere offrendomi il quadro”.

“Ce l’avete voi ora?”, questo era il lieto fine che la mia coscienza filmica cercava.

“No, l’ho rifiutato perché era troppo bello, si vedeva tutta la mia terra, il mio mare che non sapevo se avrei più rivisto. Non mi ricordo un’altra volta che ho pianto in vita mia. Mi disse che lui gli aveva dato il nome provvisorio di “Cartina dalla Torre” e poi mi chiese una proposta per un altro nome e io gliene ho proposto uno però poi non so che ha deciso. Poi non è più tornato. Mi so fatto belli i miei anni di galera e ora sto qua, lavoro e non mi manca niente. Ogni tanto me ne accorgo quelli ancora passano di qui, ma che posso fare? Se me ne accorgo io se ne accorge anche chi dovrebbe accorgersene. E’ già tanto che il Comune m’ha dato l’autorizzazione per ’sto lavoro”.

 

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Mi so fatto belli i miei anni di galera e ora sto qua

 

Michele c’aveva lasciati come cuciti al suo parlare. Ascoltare queste storie direttamente dai loro protagonisti è veramente raro, quell’uomo aveva vissuto una vita da cinema e nemmeno lo sapeva. Adesso, quando il tempo permetteva, faceva due volte al giorno avanti e indietro per la costa sud di Vieste, tredici euro a testa per un centinaio di persone, con un viaggio ci pagava la benzina e, riparati gli acciacchi della vecchia Paloma, tolti i soldi per l’aiutante, il resto era bastevole per un signore e sua moglie i cui figli hanno trovato una vita altrove.

Tutta la storia, la faccia di quell’uomo mentre la riviveva, il modo in cui muoveva le mani per disegnare in aria le rotte che percorreva mi lasciarono un senso di vergogna addosso. Ero l’unico suo conterraneo presente e non avevo la minima idea di quello che accadeva a un palmo d’acqua dal mio naso. Più o meno sapevo cosa accedeva, ma le sigarette di contrabbando anch’io le andavo a comprare, per me e per i miei amici significavano sostanzialmente risparmiare. Pensavo fosse solo la vergogna a farmi provare quel calore e invece nessuno dei quattro presenti si era reso conto che la mezz’ora di pausa era diventata un’ora e un quarto, l’ombra ci aveva abbandonati e insieme a lei, anche se nessuno sembrava averci fatto caso, anche Domenico si era ormai allontanato per salire in barca e iniziare a caricare i passeggeri.

 

Michele tornò al suo presente da pilota-guida turistica mettendosi su gli occhiali Matrix e la canottiera. Ci promise, ed era la guida a parlare, che durante il ritorno c’avrebbe mostrato uno scoglio a forma di cuore che una volta la Perugina aveva utilizzato per una pubblicità. Ci stavamo dirigendo verso l’imbarcazione che conteneva già tutti i compagni di escursione che mi bestemmiavano di nuovo contro perché per colpa dei miei ritardi, facevo saltare loro la lezione di tennis o di acquagym o di balli di gruppo. Dopo qualche passo Michele mi prese per la spalla e dopo un silenzio farcito di affanno da fumatore di vecchia data mi disse: “Come hai detto che ti chiami?”, “Sempre Sergio”, dissi credendo che volesse sdrammatizzare il tutto, sbagliando ancora una volta.

Non avendo alcuna intenzione di farmi anche il ritorno in piedi, mi stesi sulla punta della barca insieme a Domenico. Iniziai a ripensare alla storia che avevo appena sentito. I primi due minuti. Il dondolare della barca, il brusio stanco degli altri viaggiatori che non riusciva a superare il rumore delle onde che si salutavano a prua e si rincontravano a poppa, mi conciliarono un sonno profondo. Solo una volta attraccati allo stesso scoglio della partenza, il brusio dei passeggeri era tornato vigoroso nel tentativo di svegliarmi in modo che mi levassi di torno. Degna conclusione della mia giornata da protagonista. Nella fretta di liberare il passaggio, purtroppo, non riuscii a salutare Michele, che nel frattempo, si stava già occupando dei nuovi passeggeri. Nel volgermi, però, notai che aveva un solco lungo il viso.

 

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