Come la coscienza collettiva si sta sgretolando sotto i colpi della rete con le sue maglie.

La rete con le sue maglie, con i social network che ne sono emanazione principale, sviluppandosi con le cosiddette smart cities, non solo inibisce qualsiasi pensiero rivoluzionario, ma uccide la democrazia e la trasforma in un regime plebiscitario in cui ogni Resistenza diventa impossibile, annebbiando la coscienza collettiva.

Inizialmente sembrerebbe compiersi l’utopia dell’accesso diretto alla vita pubblica, emergere una democrazia senza nessuna intermediazione, nella libertà più assoluta.

 

La parola d’ordine è disintermediazione, eliminare cioè tutto quello che ostacola la volontà nella sua espressione più diretta e semplice.

 

In realtà le cose sono ben diverse.

 

L’accesso si configura immediatamente come privato che diventa pubblico: è il mio punto di vista, è la mia idea, la mia opinione, è il mio pensiero, sono le mie foto, mie citazioni all’interno di uno spazio pubblico dove, essendo poste a monte le regole di ogni possibile interazione (la logica del “mi piace”), diventa impossibile la costituzione di un’identità collettiva attiva e alternativa.

 

Io sarò in definitiva sempre solo, sempre da solo, mai all’interno di un gruppo nel senso classico di ambiente comune, collettivo, dove si matura una coscienza collettiva, diversa, strutturata, potente allo stesso modo della coscienza individuale, con cui dialoga a pieno titolo.

 

Impossibile è la rivoluzione come pensiero dell’oltre capitalismo, perché ogni movimento di massa corrisponde a tutti gli effetti a una ricollocazione, a un riassetto interno all’assoluto rappresentato dal capitalismo, unico orizzonte possibile che grazie al perfezionamento degli strumenti tecnici, addomesticando il simbolico e incatenando ogni cosa dall’infinitesimale al macrosistema complessivo in una pratica di rifiuto o adesione ripetuti, non permette un pensiero del “fuori”.

 

Con la rete declinata nella forma social si è estremizzato il discorso televisivo, quella forma di comunicazione che ha condotto alla nascita di un pubblico. Grazie alla rete, la forza di cambiamento con la sua coscienza collettiva rappresentata dalla massa, è diventata né più né meno che la somma di tanti piccoli privati che come cuscinetti a sfera sono simili.

La partecipazione è la caratteristica di queste unità conformi. Nessun tipo di condivisione collettiva, nessuna solidarietà tra loro, effettiva. Il legame è nel loro essere il pubblico, essere spettatori e basta di uno show che anche a livello politico è simile a uno spettacolo, colpi di scena e applausi e risa durante la diretta dall’ennesimo salotto, dove una serie di figure medesime parla usando i soliti luoghi comuni.

 

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Con la rete declinata nella forma social si è estremizzato il discorso televisivo

 

E l’importanza dei luoghi comuni diventa fondamentale. Non c’è uno spazio comune dove nasce una coscienza collettiva che di volta in volta poi generi un riassetto delle strutture sociali. A partire dall’abolizione dei luoghi comuni e di rapporti consolidati, la Rivoluzione deve parlare una nuova lingua altrimenti non è rivoluzione, l’interazione è spostata su un piano di scelta precalcolato.

 

Lo status quo conservatore, il pensiero reazionario non si oppone a una spinta eversiva, piuttosto procede con stress controllati per esaurire letteralmente lo spazio dove potrebbe nascere un vero scossone rivoluzionario, così la reazione assume nel suo destino l’atto creativo per esaurire lo spazio dove la rivoluzione avrebbe la forza di emettere il suo primo vagito.

 

Il conservatorismo più duro fa suo l’aspetto della modernizzazione permanente, del perfezionamento perenne degli strumenti condannati comunque a un’obsolescenza programmata necessaria per far continuare il circuito. Il progresso, la nozione per cui l’operato della ragione avrebbe fatto uscire l’uomo dalle tenebre dell’oppressione, assume una connotazione negativa.

 

Gli spazi fisici sono occupati con un approccio di logica strumentale, dove lo strumento assume la funzione critica, come nel caso della fotografia, pratica per cui la “prospettiva” è decisa dalla macchina, con un passaggio tra visuale, punto di vista estetico che investe un intero linguaggio, al visivo che ha la forma di un messaggio, informazione da trasmettere, per cui a fare la differenza non è l’occhio di chi fotografa, ma sono la qualità dell’obiettivo e la “bellezza” iconica del posto, dei fattori acquistabili e ripetibili.

 

Il social come destino della rete produce le smart cities, la materializzazione fisica di una serie di connessioni collettive.

 

Le smart cities sono colonie vere e proprie, dei luoghi dove la connessione sostituisce la rivoluzione, in cui per un’igiene abitativa tutti sanno cosa fare e quando farlo, tutti si rendono utili partecipando.

La smart city non è altro che l’occupazione di uno spazio altrimenti abbandonato a forze non controllabili, con una serie di connessioni che fagocitano tempo e capitale razionale colonizzando fisicamente un luogo altrimenti libero. 

 

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Le smart cities sono luoghi dove la connessione sostituisce la rivoluzione

 

La rivoluzione muore perché soffocata dalle connessioni.

 

Gli individui cuscinetti a sfera, attratti come api dal miele da un enunciato che ha la forma delle parole d’ordine si mobilitano, mai arrivando a comporsi come coscienze collettive, ma come gruppi di acquisto. La massa si configura come massa di acquirenti, sulla base del “mi piace” dato o non dato, perché esprime una preferenza. 

 

Spostata sul piano politico, questa prospettiva dà origine a una profonda revisione dello stato democratico. Il principio di delega, il fatto che esistano organi intermedi, funzionari che hanno il potere di decidere, è nell’opinione comune diventato il motivo della crisi. L’abuso, il furto, perpetrati dalla quasi totalità di questi funzionari, sono riconosciute universalmente tra le principali ragioni in Italia della crisi economica.

 

Certamente è un’affermazione vera, ma non sono le uniche motivazioni. Molte altre riguardanti la stessa natura del capitalismo come civilizzazione che sussiste riproducendo le condizioni della sua stessa necessità di essere hanno un’importanza maggiore.

 

Non si può chiedere a un asino di volare.

 

L’elemento da considerare ora sarebbe quello riguardante la possibile assenza di mediazione come affermazione della libertà, invece non solo possibile e auspicabile, ma soprattutto necessaria.

Nel momento in cui fu possibile la nascita di una coscienza di classe, attraverso il riconoscimento del proprio stato di minorità, imposto e condiviso da migliaia di altre persone, emerse la necessità di cambiare le cose. Un’enorme massa di individui, si coagulò e divenne un blocco, multiforme, molto spesso fragile, con il quale lo status quo dovette in qualche modo confrontarsi.

 

I tentativi di violenza dell’establishment costituito furono numerosi, la storia racconta molte di queste rivolte quasi tutte fallite per i più disparati motivi.

 

Il punto però è che anche nel fallimento una rivoluzione, nata su una coscienza di classe forte e strutturata, ha comunque rappresentato un motivo fortissimo di cambiamento. Il regno dei fini non sarà stato realizzato, quello di dio non è di questo mondo, ma dei risultati significativi si sono ottenuti, o con la concessione ottenuta di diritti fino ad allora inimmaginabili, o su un piano indiretto, come apertura di un dialogo, riconoscimento dell’esistenza di un problema effettivo.

 

Senza una coscienza di classe, senza la sua funzione rivoluzionaria che poi determini la nascita di forme sociali differenti, comincia ad affacciarsi l’idea che il cambiamento rivoluzionario non sia solo pericoloso, ma soprattutto inutile. Non c’è nessuno che si opponga forte dell’irriducibilità della sua identità collettiva ad un sistema di valori condiviso.

 

È impossibile una reale marginalizzazione, una vita sociale “fuori” dai confini imposti dal sistema rete, espressione ultima del capitalismo.

 

Il sistema rete come espressione ultima del capitalismo

Il sistema rete come espressione ultima del capitalismo

 

Senza un margine, non può sussistere una minoranza, consapevole, la quale costringa la maggioranza a considerarsi, seppur numericamente superiore, in qualche modo parziale, passeggera.

 

La rete occupa la periferia, la ingloba e ne fa oggetto politico e poi mercato.

 

Tutto va bene viva madama la marchesa, perché ognuno in maniera immediata e senza filtri esprime il proprio parere libero e scevro da influenze, con un valore commerciale. Ci si illude che la rete sia uno strumento che abolisca la mediazione, che permetta la democrazia diretta, l’unica vera (?) e propria democrazia.

 

In realtà la mediazione esiste ed è quella strumentale. L’algoritmo di base che consente l’accesso alla rete, ne predetermina i requisiti e ne guida gli sviluppi successivi, piegando la funzione critica individuale a logiche di partecipazione. L’utopia di libertà si mostra come luogo di schiavitù sottile e invasiva: catene sottili come seta e forti come il diamante imprigionano in una rete viscosa simile a quella dei ragni.

É il trionfo del principio economico della divisione del lavoro applicato in un campo grande il mondo intero, riorganizzato secondo un’autorità che non è autorevole, ma si regge sul numero di persone favorevoli o contrarie.

La rete stabilisce le competenze, ogni singolo individuo connesso produce un reddito per cui non sarà mai pagato.

 

Alla Divisione del lavoro, alla partecipazione attiva come profili costantemente aggiornati, subentra un’organizzazione successiva, ottenuta mediante parole d’ordine, parole chiavi che mobilitano fintanto che duri la condivisione. Ciò inibisce la coagulazione di gruppi di persone, masse critiche il cui desiderio non potrà essere soddisfatto, una popolazione di veri sconfitti, numerosa, sanguinaria e affamata che possa costringere, minoranza consapevole e forte, la maggioranza a darsi una mossa, a svegliarsi. Senza questa dialettica tra maggioranza e minoranza la democrazia è morta. Nasce una comunità di singoli incapsulati trasversale a quella della res publica, un magma che attraversa gli ordinamenti legislativi, sulla base economica di bisogni. Affiora una nuova gerarchia dei bisogni, sulla base delle richieste che sommandosi raggiungono una massa critica sensibile e suscettibile a proposte d’acquisto allo stesso modo in cui è sensibile a temi sociali.

La socializzazione del bisogno, intesa come necessità di rappresentare il desiderio a partire dalla risposta come soluzione a un bisogno condiviso, previsto, economico, è l’esito ripetibile in modo indefinito di un’organizzazione concentrazionaria, identitaria, presenzialista, che produce un modello abitativo – coloniale nuovo, una sintesi tra carcerario, ospedaliero, scolastico: l’hard disk society, una democrazia plebiscitaria che si muove sulla base della ratifica.

 

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L’hard disk society deteriora la coscienza collettiva

 

Le caratteristiche di questo modello sono essenzialmente quelle di contenere, curare, educare, sulla base di un principio autoritario. Sono tre elementi contemporanei di un’operazione di colonizzazione che ha il nome di Web e si manifesta prima come social network in cui condividere e ora con le smart cities, teste di ponte, colonie abitate da cui costruire una serie di connessioni che soffocano qualsiasi pensiero rivoluzionario, installazioni permanenti che interrogano come sfingi, la materializzazione della necessità di accedere ovunque a un sapere condiviso, l’espressione fisica del social.

 

La rete nasce come sintesi di queste tre strutture: il carcerario, lo scolastico, l’ospedaliero, sono sovrapposte, i margini, i confini precisi che le delimitavano, le rendevano riconoscibili immediatamente, sono saltati per aria. La rete è tutte e tre queste cose, insegna e fa insegnare, cura e fa curare, imprigiona e fa denunciare. Il modello generale della rete assorbe, l’hard disk society è il luogo che accoglie tutti. L’accesso sempre possibile, si determina di volta in volta come adesione a dei bisogni che sono espressi con parole d’ordine, chiavi d’accesso, che necessariamente mettono l’utente, la persona diventata utente, di fronte alla scelta se essere d’accordo o meno. Un giudizio critico, una posizione di natura diversa, differente, un pensiero che sia riformulazione della questione, diventa impossibile. A una domanda deve (!) corrispondere una risposta legata a un protocollo operativo da compiere immediatamente. Questo protocollo rappresenta una memoria abortita, il patrimonio esclusivamente informativo funzionale che la rete sedimenta con i suoi click.

 

Essenzialmente un’enorme mole di statici dati che non sono oggetto di analisi critica rivoluzionaria, ma sono solo strumenti per una futura campagna di marketing: semplicemente sono i termini grazie ai quali è possibile riallocare ogni volta la domanda avendo a monte prestabilito i bisogni.

 

I big data, milioni di click, stringhe, operazioni, sono una traccia indelebile, sono il destino dell’umanità che ha ceduto la sua sovranità agli stessi strumenti che ha creato.

 

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Big data, milioni di click, stringhe, operazioni

 

La colonizzazione, il tentativo classico della democrazia che attaccava il diverso per equilibrare i conflitti interni, impossibilitata ad esistere se non attraverso l’obbligo imposto, con le armi o con il denaro o in entrambi i modi, a tutte le forme di civilizzazione esterne di assumere una dimensione compatibile, nel trionfo del capitalismo globale, diventa ora un gigantesco modo di introspezione collettivo, così totalizzante grazie all’universalità della rete. Senza la differenza, senza l’intraducibile, un enorme blocco dove le connessioni preordinate si riproducono accese e spente, è l’universo intero della conoscenza ridotta al rango di informazione.

É necessario ora più che mai cercare dei margini che non possano essere ripiegati sul centro, delle periferie irraggiungibili, fuori dalla rete e in qualche modo capaci di sfuggire alla sua forza di controllo. Produrre discorsi fuori dalla possibilità di rappresentazione, con un’operazione estetica che liberi le forze della conoscenza differenti dall’informazione.

 

Quello che è in gioco è molto più che un’eventuale contrazione del reddito a causa della perdita di potenziali acquirenti. 

 

Stavolta aprire le porte ai barbari, portatori di un discorso irriducibile, incomprensibile, può davvero essere il modo in cui le maglie della rete si lacerino, al fine di troncare un percorso coloniale che, erede del fascismo, ha una forza ancora maggiore perché effettivamente rende impossibile un pensiero dell’anti-fascismo. Non c’è resistenza, se la resistenza stessa non è concepibile.

 

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