Al Jazeera America si è rivelata essere una scommessa azzardata, per questo il canale televisivo dell'emittente chiuderà ad aprile.

Secondo il New York Times, l’improvvisa notizia della chiusura del canale televisivo ha sconcertato quasi tutti i giornalisti dello staff di Al Jazeera America (AJAM). Il canale, così come il resto dell’emittente, è finanziato dalla famiglia reale qatarina che non ha mai lesinato sui fondi e il cui impero si fonda sul commercio di combustibili fossili. Non è dunque possibile, si sono detti gli stessi giornalisti, che il canale chiuda i battenti per ragioni di ordine economico, ci deve essere dell’altro, ci deve essere una motivazione politica, qualcosa di più sensazionale. Ed il movente è presto trovato: il crollo del prezzo del barile di petrolio rende inviso il Qatar e il suo emiro al popolo americano. È la fine, non c’è altro modo di uscire dall’impasse se non quello di voltare pagina e per questo Al Anstey, direttore esecutivo di AJAM, si è visto costretto ad annunciare la triste novella a 700 professionisti che da aprile si troveranno sulla strada. Un’analisa fredda e razionale, certamente, ma non l’unica possibile e sicuramente non quella più credibile. AJAM ha sempre prodotto contenuti mediali di qualità con l’obiettivo di ritagliarsi la propria nicchia di mercato e fornire al cittadino statunitense l’informazione indipendente di cui necessita. Le critiche alla politica interna dell’emittente non sono pero’ mancate e le ragioni del suo fallimento dipendono in parte anche da quelle del successo di Al Jazeera nel resto del globo.

 

Alcuni mesi dopo aver ottenuto la guida del paese, Hamad bin Khalifa al-Thani ha lanciato il suo progetto per consacrare il Qatar al Gotha del soft power mediorientale. La redazione di Al Jazeera è stata assemblata nel 1996 con componenti venute direttamente dalle migliori testate d’occidente. Intimoriti dal clima politico del paese, i giornalisti selezionati hanno immediatamente messo l’emiro al corrente delle perplessità emerse, e questi, altrettanto rapidamente, ha ribadito che nulla avrebbe impedito loro di osservare la propria deontologia professionale e di fare informazione imparziale. Il risultato di questo melting pot è un media dinamico e innovativo che ha saputo accattivarsi la fiducia dei consumatori arabi meglio di come avevano fatto i suoi predecessori. Le troupes di Al Jazeera andavano a scovare l’informazione laddove altri non osavano e questa attitudine ha permesso al canale di averne praticamente il monopolio. I reportages sugli eventi che hanno seguito l’11 settembre, prima, e quelli sugli scontri della primavera araba, poi, hanno dato all’emittente qatarina l’opportunità di aprire una finestra sull’occidente. Al Thani non se l’è fatto ripetere due volte e ha promosso la creazione di nuovi canali in lingua inglese prima di accarezzare l’idea ammaliante di conquistare il mercato dell’informazione statunitense.

 

Nell’estate del 2013 i tempi erano ormai maturi secondo il consiglio di amministrazione e con una manovra da 500 milioni di dollari Al Thani ha acquistato Current TV per diffondere Al Jazeera America via cavo. Secondo alcuni, questa scelta avrebbe contribuito al collasso di AJAM dal momento che tale settore sarebbe completamente saturato. Ad ogni modo i rappresentanti di Al Jazeera non si sono lasciati scoraggiare e hanno sottolineato che anche CNN e Fox News si erano viste pronosticare un fallimento cocente. Se il successo è una questione di costante investimento, non esiste un mercato che possa resistere alla penetrazione di Al Jazeera. In questo caso pero’ sarebbe stato meglio tenere a mente che non tutto puo’ essere acquistato con il denaro, soprattutto la fedeltà dell’audience americana. Per molti di loro Al Jazeera non è altro che la voce di Al Quaeda, la redazione che si è arricchita grazie al dramma americano, che conosceva il luogo dove Bin Laden si nascondeva e taceva al riguardo per assicurarsi interviste dal valore mediatico inestimabile. “Disonesta, approssimativa e indifendibile”, l’aveva definita l’allora segretario di Stato, Donald Rumsfeld. Non a caso nessuno dei pubblicitari di Madison Avenue ha voluto sottoscrivere un contratto con AJAM al momento dello sbarco a New York, dove il canale ha la sua sede legale.

 

Altre vicissitudini hanno logorato l’immagine di AJAM, tanto più che la concorrenza, come ben sappiamo, non aspetta altro che diffondere dei buoni scandali per ledere la reputazione dei suoi rivali. Due episodi particolarmente controversi meritano di essere citati. Nell’aprile dello scorso anno, Matthew Luke, un supervisore dello staff di AJAM, ha chiesto un risarcimento di 15 milioni di dollari per essere stato licenziato in seguito ad alcune rimostranze sulla politica interna. Secondo Luke, l’atmosfera che regnava nella compagnia era apertamente “anti-americana, misogina e anti-semita”. Ed  in effetti è difficile immaginare che la testata sia completamente obiettiva e indipendente quando il responsabile delle risorse umane dichiara che “chiunque supporti Israele dovrebbe morire di una morte atroce all’inferno”. Un presentimento confermato alcuni mesi dopo da un secondo scandalo che ha investito niente meno che il CEO di AJAM, Ehab Al Shihabi. Shannon High-Bassalik, impiegata presso la redazione, ha dichiarato che il numero uno di AJAM promuoveva pratiche apertamente discriminatorie nei confronti dello staff femminile; una discriminazione che si sommava a quella già rivolta ai membri non arabi della redazione. Inoltre, continua High-Bassalik, la direzione aveva un’opinione distorta dei fatti dell’11 settembre, catalogati come una fantomatica messa in scena della CIA per dichiarare guerra al Medio Oriente in un mondo post-guerra fredda.

 

Come era prevedibile, Al Shihabi è stato invitato a presentare le sue dimissioni e al suo posto è stato assunto Anstey che ha il merito di aver riportato l’armonia nella redazione ma non il successo sperato. In prime time il canale spesso non riusciva a raggiungere più di 30 mila telespettatori e la media su tutta la giornata era di circa 19 mila unità. Tutto meno che delle cifre da capogiro per l’emittente giornalistica più celebre di tutto il mondo arabo, e tutta la direzione ne era ben conscia. In definitiva, le parole di Anstey riassumono tutta la portata del problema, dato che “il modello di business [di AJAM] è semplicemente insostenibile alla luce delle sfide economiche poste dal mercato mediatico statunitense”. Dopo aver fatto un passo indietro, Al Jazeera ha peraltro dichiarato di voler rafforzare la propria presenza digitale a scapito dell’informazione via cavo. Al Thani ha compreso di aver perso la scommessa del mercato mediatico americano ma la sfida finale si giocherà su un altro terreno, e se lo staff non commetterà passi falsi è possibile che Al Jazeera riesca a fidelizzare più lettori come l’entusiasta Robert Kaplan, autore dell’articolo “Why I love al-Jazeera”. Oramai l’emiro ha imparato che nell’America di Donald Trump candidato alla presidenza, i “petrodollari” non comprano la coscienza dei telespettatori.