L’Europa deve sviluppare un piano concreto per contrastare il fenomeno immigrazione. E può farlo solo accettando il problema e provando a regolamentarlo con l’aiuto degli stati membri e dei paesi nord-africani.

Quando le vittime sono poche nessuno di noi divoratori di informazioni digitali si interessa eccessivamente. Dieci migranti morti nel canale di Sicilia scivolano via. Sono un numero. Non sono Nyamekye con tre figli in Senegal. Né Dafina, donna incinta con una madre malata in Eritrea. Sono come una pioggerella inglese da cui ci si asciuga in fretta per tornare a fare quello che stavamo facendo prima. Poi l’ecatombe, e il temporale arriva davvero. Nyamekye e Dafina, continuano a essere dei numeri senza volto, però in questa seconda occasione, i j’accuse dei media, i discorsi toccanti – ma sempre coniugati al futuro – dei rappresentanti dei governi e, infine, i video e le foto che inondando il web, portano il problema sulla bocca di tutti.

 

È quello che è successo il 19 aprile, quando il mare impervio ha inghiottito la vita di circa 800 migranti disperati.

 

La UN Refugee Agency riporta che, dall’inizio del 2015, più di 36 mila rifugiati sono arrivati via mare in Europa meridionale e, di questi, circa 1800 hanno perso la vita nella traversata. Le dimensioni del disastro si comprendono meglio quando si osserva lo stesso dato per l’intero 2014. Lo scorso anno coloro che hanno investito i risparmi di una vita, e la vita stessa, per arrivare in Europa sono stati circa 220 mila; mentre le vite che ormai riposano in pace in fondo agli abissi del Mediterraneo sono 3500. Ça va sans dire, che la situazione è allarmante: l’aumento dei flussi migratori clandestini con riguardo allo stesso periodo dell’anno scorso è stato di 20 volte.

 

Alla luce dei conflitti in atto alle porte dell’Europa, dell’instabilità geopolitica che caratterizza vari stati africani, e per via dell’arrivo della bella stagione, gli sbarchi aumenteranno inevitabilmente.

 

Analisi sulla situazione dei migranti e degli sbarchi sulle coste del Mar Mediterraneo e sui programmi di accoglienza degli Stati Membri dell'Unione Europea

 

Una volta ho sentito dire che si dovrebbero lasciare i migranti a se stessi e pagare l’alto prezzo della perdita di altre vite, con lo scopo ultimo di educare coloro intenzionati a partire. Una soluzione che sostiene il laissez-faire, come politica pedagogica volta a salvare un più grande numero di vite nel lungo termine. Senza stare neanche a entrare nelle implicazioni etiche di tale proposta, già si capisce che è pura spazzatura. Una chiacchiera da bar.

 

I flussi di migranti non si fermeranno, perché non è possibile arginare l’istinto di sopravvivenza umano. 

 

Quando l’estate scorsa ho intervistato Youssuf, un ventinovenne senegalese in fuga dal banditismo che destabilizzava la sua regione di origine, ciò che è emerso chiaro dalla nostra conversazione è che, in un certo senso, chi può permettersi di prendere una decisione così estrema come attraversare il Mediterraneo su un barcone della speranza, è già morto. Non parlava di una morte fisica, ma piuttosto introduceva il concetto di morte in modo più generalizzato; come totale mancanza di futuro e di diritti minimi che impediscono lo sviluppo della vita come la intendiamo in Occidente.

 

“Arrivare fino in Libia è stremante. Ci si lascia tutto dietro per imbarcarsi in un viaggio il cui destino è incerto già dalla partenza”, mi raccontò Youssuff durante il nostro incontro. Il suo viaggio da immigrato è durato tre anni e lo ha visto attraversare prigioni, polizia corrotta, guerre civili e essere ostaggio di gruppi di ribelli che hanno ucciso impunemente alcuni suoi compagni di viaggio. Ancora, lo ha visto divenire vittima di carnefici senza scrupoli che, prima di lasciarlo imbarcare verso l’Europa, hanno sfruttato la sua condizione di clandestino, negandogli il salario promesso per la sua manodopera.

 

I flussi di migranti non si fermeranno, perché non è possibile arginare l’istinto di sopravvivenza umano.

 

Accettarlo è il primo passo per gestire il problema. Un altro elemento con cui dobbiamo fare i conti è che non si conoscono bene le realtà in cui vogliamo intervenire. Tipico peccato di superiorità dell’’uomo bianco’, che si ritiene in grado di arrivare e portare i suoi valori e la sua conoscenza per ‘salvare’ i paesi sottosviluppati con una imposizione coatta del cambiamento che vorrebbe indurre – che va in direzione contraria rispetto a ciò che tali paesi necessitano: un graduale cambio interno, controllato e monitorato, che però sia il più naturale possibile.

 

Dunque che fare? Il segnale dato dalla Commissione Europea, in risposta all’ecatombe del 19 aprile, è stato un buon inizio – specie se teniamo in conto il passaggio dall’operazione Mare Nostrum a Triton, che ha visto ridurre notevolmente le risorse destinate al pattugliamento e interrotto le operazioni di salvataggio di barconi alla deriva, determinando contestualmente un picco del numero di morti. La ripartizione del carico di migranti che bussa alle porte di Italia, Grecia e Spagna, sembra una ovvietà nel contesto di una Unione di stati che pretenda definirsi tale – specie quando si prende in considerazione il fatto che raramente i migranti pianificano di rimanere in Italia o negli altri Stati di ingresso, ma piuttosto sperano di arrivare in Germania, Norvegia e Svezia. Ma le contrattazioni per giungere a questo accordo sono state molto più lunghe del previsto. Il piano attuale dell’Europa prevede la ripartizione di circa 40 mila migranti siriani e eritrei, riconosciuti essere in uno stato di “chiara necessità di protezione internazionale”, tra i paesi membri. Coloro che accoglieranno il più grande numero di migranti, per ognuno dei quali verrà pagato un benefit di 6 mila euro dalla Commissione Europea, saranno Germania, Francia e Spagna. Tuttavia, Francia, Regno Unito e altri stati hanno manifestato scetticismo, e il piano finale sarà deciso nei prossimi giorni.

 

Nel frattempo, le storie di marinai che intervengono spontaneamente per salvare i barconi prima che affondino si moltiplicano. Ancora, iniziano a prendere vita iniziative autonome per limitare le vittime. I ricchi coniugi Catrambone hanno dato vita a MOAS: una iniziativa filantropica che, dalla base di Malta, pattuglia autonomamente i mari dal 2014 con una imbarcazione chiamata Phoenix e l’aiuto di due droni. L’intervento da parte di civili è un segnale forte, dal quale i governi dovrebbero prendere spunto per stabilire un programma realmente in grado di fare la differenza nel Mediterraneo.

 

Il problema è sotto gli occhi di tutti. Accettarlo, comprenderne le radici e regolamentarlo è la soluzione. Una soluzione complessa, che richiede l’imprescindibile coinvolgimento degli Stati Membri e degli Stati Nord-Africani maggiormente interessati dai flussi. Come scrive Riccardo Pennisi su Limes, in uno degli articoli più interessanti che ho letto sul tema, la collaborazione è chiave; e deve essere reciproca e messa in pratica con pragmatismo e preparazione perché: “l’impossibilità politica dell’accoglienza in ‘ogni caso e per tutti’ e l’illogicità dell’opzione repressiva di chiusura dimostrano il fallimento degli approcci ideologici o estemporanei finora adottati”.