Avevo in serbo delle belle storie da narrare per questo venerdì. Con tanto di morale conclusiva: commenti su cosa è giusto e cosa è sbagliato, che fanno salire i feedback dell’articolo facilmente. Avevo una storia su una prostituta in Tailandia; volevo parlare di Elon Musk – miliardario/filantropo/genio che, dopo una vita di successi, ora ha l’obiettivo d’impiantare una colonia su Marte entro il 2025. Avevo in mente di parlare del Ruanda per sviluppare poi il concetto di dittatura. Altri argomenti erano il ruolo della donna nello sviluppo economico di un paese e la legalizzazione della marijuana a scopi ricreativi in Colorado e nello stato di Washington (tra l’altro volevo menzionare i rilevanti progressi fatti in Italia, dove si è avuto un crescente favore nei confronti dell’utilizzo della ‘ganja’ a scopi terapeutici – sì, avete capito bene voi che postate su Facebook articoli di cui avete letto solo il titolo, in Italia non ci si può fare le canne ai giardini ma ti può essere prescritta in alcune regioni se hai, ad esempio, un tumore). Ma poi mi son ricreduto.

Mi sono ricreduto quando ho ricevuto il diploma universitario tradotto in inglese. In questo, oltre ad un riassunto della carriera, si spiega il funzionamento del sistema universitario di riferimento e si offrono statistiche riguardanti i laureati dell’ateneo in questione. Il 23.8% dei laureati triennali della facoltà di Economia di Firenze esce con una votazione pari a 110 e lode. Invece è addirittura il 50% dei dottori magistrali che conquista l’ambita votazione massima. Ancora, ben il 58% dei dottori magistrali della facoltà di Economia di Siena prendono 110 e lode. Ho riguardato il dato svariate volte, allibito. Provo a dirlo come lo direi a un bimbo di quattro anni: uno studente su quattro, o su due, è il meglio del meglio che quella università può offrire in quel campo. Un’enormità! Un’enormità che manda a farsi benedire tutto quello che riguarda la ‘segnalazione’ della qualità accademico-intellettuale di uno studente. Oltretutto, una così consistente produzione di dottori eccellenti, va a minare ulteriormente un già precario mercato del lavoro, dove la disoccupazione giovanile è altissima e dove la deprimente domanda: “ma se sono il meglio del meglio, perché non lavoro?” è sempre più diffusa tra le anime che popolano questo limbo. Con un brivido che mi percorreva la schiena mi sono messo a fare un po’ di ricerche.

Schivando abilmente le inutili informazioni sull’Italia e i suoi bassi posizionamenti nei ranking universitari, spesso e volentieri indicazione di massima sulla effettiva qualità di un ateneo, e non altro che meri strumenti di marketing per l’attrazione di iscrizioni e visualizzazioni delle home page delle varie facoltà, ho cercato fonti autorevoli per la stesura di un articolo informato e apoliticizzato. Una delle voci più qualificate in campo economico è quella dell’OECD (organizzazione per la cooperazione e sviluppo). Questi signori, producono diverse ricerche, perché vengano poi sfruttate dai policymakers di ogni stato. Nel 2013, hanno pubblicato “Education at a glance 2013”, versione aggiornata di un’analisi dei sistemi educativi dei paesi membri dell’organizzazione. Le conclusioni che si traggono dal rapporto sono agghiaccianti. I tratti salienti del rapporto sono i seguenti:

  • Per spesa universitaria (% del PIL), l’Italia è davanti solo a Repubblica Slovacca, Brasile (non-OECD) e Ungheria, posizionandosi così 30^ su 33. Mentre, per spesa per istruzione come percentuale della spesa pubblica l’Italia è ultima.
  • Per tagli all’istruzione (% del PIL), l’Italia è migliore solo dell’Ungheria (29^ su 30).
  • Dai dati risulta un marcato eccesso di professori, una mediocre spesa per studente e un sistema di tassazione alquanto insostenibile (i poveri pagano per i ricchi per amor di un principio di livellamento della tassazione ingiustificato e la spesa è quasi interamente privata – per via di una sostanziale assenza di borse di studio e di programmi di tutela per i meno abbienti).
  • Infine, la percentuale della popolazione che appartiene alla fascia 25-34 anni che è in possesso di un diploma di laurea è equivalente al 21% (media OECD, 39%).
 
Lascio ai curiosi il compito di guardare nel dettaglio la ricerca, dato che il messaggio mi sembra chiaro e altre parole mi sembrano sprecate: è uno sfascio culturale, anticamera di uno sfascio sociale. Come è possibile rilanciare un paese in crisi se non partendo da un solido sistema di educazione? Come non giustificare i pluricitati cervelli in fuga se l’Italia non è in grado di offrire opportunità? Purtroppo l’impatto negativo di tale fenomeno è ampliato dal fatto che non si ha nemmeno la capacità di attrarne di nuovi, questo fatto, unito al problema di invecchiamento della popolazione, regala prospettive piuttosto allarmanti.
 
Nonostante i toni disfattisti, non tutto è perduto. Siamo in un gran casino, questo è sotto gli occhi di tutti! Ma di persone che hanno a cuore questo paese ce ne sono, eccome! L’eccellenza non è perduta ovunque, e (ho imparato che) l’Italia è una realtà così particolare che la valutazione di dati aggregati fa spesso perdere molti punti di vista. Si deve guardare ai dipartimenti specifici di una università italiana, si deve guardare ai corsi specifici di una università italiana, si deve guardare ai singoli professori di una università italiana e agli interessi di questi… Ovviamente il tutto dovrebbe essere unito a chiare politiche di sostegno da parte del governo che si dovrebbe rendere pienamente conto che l’università è il futuro di un paese e che è una risorsa strategica fondamentale di questo.
 
Vi lascio con una perla finale di un ‘italiano vero’: “Why Should We Pay Scientis When We Make The Most Beautiful Shoes In The World?” – Silvio Berlusconi, 29 luglio 2010, European Voice.