Le elezioni di metà mandato americane hanno sancito un risultato storico: i Repubblicani si sono aggiudicati entrambe le camere del Congresso, assestando un duro colpo alla gestione Obama. Un verdetto da considerare più come una sconfitta dei Democratici piuttosto che una vittoria del Tea Party. La débâcle è di fatto maturata per le aspettative che Obama non è riuscito a soddisfare, frutto della delusione di molti dei suoi sostenitori che, astenutesi dal voto, hanno consentito la vittoria avversaria. Asserzione facilmente riscontrabile attraverso i dati statistici: la stragrande maggioranza dei cittadini che hanno disertato sono proprio quegli elettori quali le donne, i meno istruiti e le minoranze etniche, che più di tutti si aspettavano una svolta.

Il Presidente paga le critiche che gli sono state mosse durante il suo mandato, dalla gestione della situazione ucraina e siriana, nonché per la crescita inarrestabile dell’Isis. Tutte situazioni dove egli non ha mostrato il piglio decisionista e decisionale del leader, qualità questa che, in particolare negli Usa, viene considerata di primaria importanza.

La vittoria repubblicana è stata considerata da molti giornalisti come un segnale dello spostamento dell’elettorato verso destra, ma la situazione è diametralmente opposta. La cittadinanza americana è in realtà sempre più aperta nei confronti di alcune delle tematiche che da sempre incontrano la resistenza del Tea Party. I risultati dei referendum che si sono svolti in vari Stati contemporaneamente alla votazione mostrano, inequivocabilmente, come il popolo americano sia ormai tendenzialmente favorevole a temi come la legalizzazione dell’aborto, della marijuana e all’aumento del salario minimo. Tutte politiche che di certo non sono definibili come di destra.

Accanto alle colpe di Obama, non possiamo però mettere in secondo piano i meriti dei Repubblicani, fautori di un programma semplice e lineare. Vincente è risultata la lunga battaglia mossa verso l’ObamaCare, la riforma tanto voluta da Obama per “non far morire di stenti i malati poveri”. Questa riforma si è dimostrata, all’atto pratico, come il più grande fallimento del suo mandato. Teoricamente nata per garantire cure per tutti, nella pratica ha fatto perdere alla maggioranza degli americani i vecchi piani assicurativi, costringendoli a comprarne nuovi più costosi.

Le assicurazioni sono infatti state costrette ad alzare i premi dato che, essendo ora obbligate ad assicurare anche persone già malate, devono far fronte a rischi maggiori; allo stesso tempo la riforma ha comportato ingenti spese aggiuntive per i datori di lavoro, costringendo molti di loro a chiudere, con conseguente crescita della disoccupazione. I Repubblicani si sono quindi fatti promotori di un deciso piano di tagli alla spesa pubblica; essi vogliono lasciare più libertà ai privati, sostenendo che una ripresa economica è possibile solamente attraverso una politica di “laissez-faire”. L’idea base è che si può vivere, produrre e lavorare meglio senza l’intervento massiccio dello Stato, un pensiero che ha trovato il sostegno della maggioranza degli elettori. Il risultato è stato quindi un premio alla loro coerenza d’azione; l’errore in cui adesso non devono incorrere è quello di attuare una politica ostruzionista fino al 2016, mossa questa che potrebbe essere mal vista dall’elettorato. Il Tea Party deve invece mostrarsi aperto al dialogo, conciliante, a tutti gli effetti in grado di fare qualcosa. In parole povere, perseverare nella linea programmatica scelta, ricercando allo stesso tempo la strada del compromesso con Obama. Una strada che appare d’altronde obbligata, dato che l’ala moderata ha ottenuto una sostanziosa affermazione; ne sono chiaro esempio candidati emergenti come Tom Cotton, Joni Ernst e Cory Gardner, vincitori rispettivamente in Arkansas, Iowa e Colorado con una piattaforma locale sostanzialmente progressista.

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Da evidenziare sono inoltre le rilevanti conseguenze che questo risultato potrebbe comportare in campo internazionale. Il successo repubblicano potrebbe produrre una accelerazione nella contrattazione attualmente in corso tra Ue ed Europa per il Ttip, il Trattato transatlantico per il commercio e gli investimenti. Si tratta di creare una grande zona di libero scambio che dovrebbe portare ad una decisa crescita economica ed occupazionale da ambo le parti. Tale trattativa non si è ancora definita per via delle forti resistenze in seno al partito Democratico, ma con l’ascesa dei repubblicani, decisamente più favorevoli al libero scambio, tale situazione potrebbe sbloccarsi. Allo stesso modo sono fortemente probabili novità in tema di politica estera (possibilità di inasprimento delle sanzioni nei confronti della Russia), così come nel campo dell’energia: l’agenda repubblicana prevede infatti la facilitazione della produzione di shale gas, da ricercarsi attraverso la riduzione dei vincoli nelle attività di fracking. Non sono invece attualmente in agenda proposte precise su temi riguardanti l’ambiente: una delle priorità di Obama era quella di regolamentare le emissioni di Co2 attraverso l’imposizione di una carbon tax, ma non è ancora chiaro quale sarà la posizione che assumeranno i  repubblicani al riguardo.

Il pensiero di molti è che il risultato delle midterm elections possa essere una anticipazione delle prossime presidenziali che avranno luogo tra due anni.

Personalmente non la penso così; la storia delle presidenziali americane ci insegna che è necessario preparare un candidato credibile con largo anticipo (ancor più che nelle elezioni europee) per farlo conoscere bene agli elettori, predisponendo una efficace e articolata campagna mediale. Tutto ciò non sta accadendo sul fronte repubblicano, ancora a corto di nomi “forti” da mandare contro Hillary Clinton. È lei, dal mio punto di vista, la grande favorita per le presidenziali del 2016. Le ragioni sono molteplici: perché è moglie di un personaggio che ha rappresentato uno dei periodi più floridi dell’economia americana; perché ha alle spalle una storia di “riscatto” (i tradimenti subiti dal marito) e, soprattutto, perché rappresenterebbe la prima donna americana a ricoprire tale carica. Insomma, sarebbe la perfetta incarnazione dell’American Dream, esattamente come lo fu Obama nel 2008 quando venne eletto primo Presidente di colore.

In sintesi, il parere del sottoscritto è ben espresso dallo slogan con cui i democratici stanno promuovendo la Clinton sui media: “It’s her time”. Tocca adesso ai Repubblicani sovvertire questo pronostico, mostrando di poter ripagare la fiducia che i cittadini americani hanno dato loro in questa ultima tornata elettorale.