All’indomani di un trionfo della Germania al mondiale di Rio de Janeiro, un’altra partita ben più ardua si sta giocando ormai da mesi tra Roma e Berlino. In campo le squadre non sono certo formate da sportivi di grande caratura ma al contrario, una certa senescenza dei giocatori accomuna entrambe le formazioni. E la posta in palio non è la soddisfazione di sollevare in aria una grande coppa laccata d’oro, ma bensì quella di portare a casa una messa in discussione, o meno, del nuovo nemico numero uno: il fatidico tetto del 3 per cento al rapporto tra deficit e PIL, tanto caro a Weidmann, presidente della banca centrale tedesca, e compagni (formazione tedesca), e mai così stretto per Renzi e i suoi (formazione italiana).

A volte mostrare un po’ i muscoli per cercare di soverchiare uno status quo poco vantaggioso fa sicuramente parte di quella téchne politica di cui Machiavelli fu un sopraffino speculatore. Anche la ricerca di un capro espiatorio da dare in pasto ad una folla inferocita (l’elettorato) fa sempre parte di un gioco proprio del centauro-politico (per usare ancora una riuscita similitudine del pensatore fiorentino), che oltre al logos proprio dell’uomo, non deve peritarsi di usare anche l’astuzia, propria di un animale quale la volpe (da qui l’immagine del policy maker metà uomo e metà animale). Attenzione quindi a scegliere per quale squadra tifare in questo grande “classico” quale è Italia-Germania, partita dal significato squisitamente politico (oltreché economico, certo) dove forse non è così scontato portare in alto i colori della bandiera di casa propria.

 Come scrissi già in un articolo precedente che rifletteva sugli economisti, la scelta di un tale limite fu piuttosto approssimativa ma sottintendeva una ratio dalla semplicità quasi disarmante: il tasso di crescita medio nell’eurozona agli inizi degli anni 90’ (quando, dopo Maastricht, la soglia del 3 per cento di deficit fu estesa a tutti i paesi euro) ancora galoppava ed in una logica di lungo periodo, questo avrebbe significato un sostanziale equilibrio del rapporto tra stock del debito di un paese ed il suo prodotto interno. Alla luce di questa prima osservazione quindi, ricordando che le stime OCSE del tasso di crescita italiano di quest’anno sono pari allo 0.6 per cento, ed ipotizzando raggiunta la soglia decretata da Bruxelles, vi è una forbice pari a 2.4 punti che si traduce in un perpetrarsi della corsa del debito sovrano che da qualche anno pare davvero inarrestabile (pari al 132 per cento lo scorso anno; durante la crisi dello spread che portò alla nascita del governo Monti, tale valore si aggirava attorno a 120 punti percentuali). Prendere a prestito danaro, ricordiamoci, non è privo di conseguenze: nel 2013 gli interessi pagati dall’Italia sono stati pari a circa 82 miliardi di euro e ISTAT rivela che ammontano a 318 i miliardi sborsati negli ultimi 4 anni per la stessa voce d’uscita. Per un paese che non cresce (e che realisticamente non lo farà in maniera davvero sostenuta ancora per molto; l’Italia è poi un’economia matura ed è perciò irrealistico immaginarsi nuovamente tassi di crescita da “boom economico”), questo significa continuare a condannare le generazioni presenti e future ad avere una enorme spada di Damocle sempre appesa sopra la testa e ad essere vittime potenziali del “sentiment” degli amorali mercati finanziari. Alla prima nuova avvisaglia di inceppamento del motore italiano, lo spread col Bund tedesco schizzerebbe ancora alle stelle e con questo, il costo di chiedere nuovo debito: insostenibile sarebbe poter ripagare i nuovi e i precedenti interessi e le conseguenze di un tale avvenimento sono facili da immaginarsi.

In un celebre paper di Blanchard e Quah del 1989 inoltre, viene mostrato come uno shock dal lato della domanda (come quello portato ad esempio da un aumento di spesa pubblica non per investimenti) abbia sul PIL degli effetti aumentativi in realtà temporanei, a maggior ragione in una situazione come quella attuale dove il capitale è con tutta probabilità sottoutilizzato. ISTAT ha recentemente dichiarato che il livello dei consumi nella penisola è tornato a quello di 12 anni fa. E’ normale quindi che si pretendano ancora delle riforme strutturali al nostro sistema paese, il quale mostra ancora dei forti attriti interni alla crescita che andrebbero assolutamente eliminati, prima di continuare ad ingigantire un ormai mostruoso stock di debito con la scusante di pompare carburante in un sistema dai molti problemi “tecnici”. E di margini di manovra a guardar meglio sembrano essercene di numerosi. Durante il periodo tra il 2007 ed il 2013 ad esempio, dei 49.5 miliardi di euro di fondi strutturali europei, solo il 40 per cento di questi è stato speso (fonte Il Sole24 Ore), mettendo in luce tutta l’incapacità della macchina burocratica nostrana di gestire un tale tesoro, in periodi di vacche magre come questi assai prezioso. Un più razionale uso di tali risorse sarebbe sicuramente auspicabile.  Recentemente la Corte dei Conti ha poi lanciato un j’accuse contro quella foresta di aziendine ed aziendette a partecipazione regionale e comunale delle quali un terzo è in perdita e la cui gestione costa alle tasche del contribuente ben 25 miliardi l’anno. Sicuramente un serio e tanto millantato new deal dovrebbe tentare di colpire e limitare un tale insensato sperpero. Visto poi il poco senso di responsabilità mostrato dall’attuale classe politica che, nonostante la crisi profonda sembra formata da “stupide galline che si azzuffano per niente” (cit. Battiato), creare un precedente permettendo di superare l’attuale vincolo di bilancio imposto dall’Europa potrebbe verosimilmente rallentare quel processo riformatorio ora in atto e mai così necessario, la cui gestazione è ancora tumultuosa e che maggiore tempo (perché la  questione del 3 per cento è soprattutto questo) potrebbe rallentare ed annacquare.

Siete ancora convinti di voler tifare gli “azzurri”? O forse cercare un posto nella curva dei tifosi tutti wurstel, crauti e birra alla spina non è poi così insensato?