Che tipo di uso ne facciamo e soprattutto, quand’è che questo formato riuscirà ad avere successo anche in Italia? 

Alla prima domanda proviamo a rispondere facendovi cliccare su questa cosa qua sotto: si tratta, appunto, di un podcast.

 

 

Ne abbiamo parlato con chi i podcast li produce quotidianamente o quasi. Jonathan Zenti, produttore indipendente i cui lavori sono stati trasmessi anche da RadioTre, Valentina Ziliani e Robin Luis Fernandez, autori del progetto Feed Me Strawberries (del quale Cecilia Grandi cura la parte grafica). Proprio qualche giorno fa Jonathan ha pubblicato su Internazionale un articolo, intitolato Song exploder, il podcast che racconta come nascono le canzoni, dove cita, tra le altre cose, anche il progetto di Valentina e Robin.

 

il Cartello: partiamo da un esempio ormai celebre. Il fenomeno USA ‘Serial’ ha attraversato l’oceano e anche in Europa sembra abbia una buona diffusione, ma in patria ha avuto milioni di download. In Italia, invece, sembra che il podcasting abbia a che fare soprattutto con la possibilità di ascoltare ciò che è già stato precedentemente trasmesso da una emittente radiofonica. Sei d’accordo con questa interpretazione? Cosa aggiungeresti?

 

Jonathan: C’è una differenza sostanziale tra l’abitudine ad usare la parola “podcast” in Italia e negli altri paesi. All’estero si è iniziato a chiamare podcast tutta quella produzione audio che non trovava posto nelle scelte editoriali delle radio in FM. E quindi “Podcast”, che in partenza era solo il nome di un servizio tecnologico, è diventato sinonimo di “storie che in radio non potresti mai ascoltare”. Da noi invece fino ad oggi quando un giovane autore non riusciva a far passare una sua idea in radio semplicemente cambiava mestiere, e le radio generaliste si sono appropriate del termine per dare una pennellata di figaggine immeritata ai loro programmi di flusso caricati on demand. Adesso un po’ le cose stanno cambiando, ci sono degli scatti di originalità che escono in maniera indipendente usando piattaforme come Spreaker o Telegram, ma devono crescere molto sotto il profilo della qualità produttiva, e purtroppo ad oggi manca una palestra dove queste idee possano essere allenate e fatte crescere. Se si riuscissero a far convergere questi punti al momento sparsi alla rinfusa, nel giro di poco temo potremmo avere anche noi un caso podcast come Serial lo è stato negli USA.

 

Valentina: Io mi sono avvicinata ai podcast e quindi a Feed Me Strawberries, in maniera totalmente amatoriale. Serial me lo hai fatto conoscere tu, e gli darò un ascolto. A me piace pensare al podcast non come ad una replica di qualcosa che viene proposto o trasmesso altrove, ma come qualcosa che deve andare ad affiancarsi, ma anche svincolarsi, dall’emittente radiofonica. Penso alla doppia velocità tra carta e web: i podcast, proprio perché nascono online, non devono né possono stare lì ad aspettare un contenuto che viene già trasmesso. Non devono stare lì a beneficiare di una sorta di messaggio che è già stato trasmesso da un canale principe. Questi podcast non sono i figli della serva. Anzi, nascono come figli della radio, ma appartengono ad una generazione con dinamiche totalmente diverse. Ragionano di testa propria. Spero in Italia si arrivi a guardare questo prodotto come un qualcosa che può camminare da solo. Secondo me è molto in gamba, e se la può cavare.

 

Robin: Anch’io ammetto la mia inesperienza in materia. Non conoscevo Serial e i podcast che ascolto sono pochi e parlano solitamente di argomenti che non hanno a che fare con la musica. Forse è stata forse questa inesperienza ad aiutarci a partire perchè se conoscessimo altre persone o altri podcast che fanno cose simili alla nostra ma in modo più professionale, sicuramente ci saremmo bloccati ancora prima di iniziare per soggezione e per timore di paragonarci a loro. Riguardo al tipo di podcast radiofonico che citi, si tratta appunto semplicemente di una replica, di una riproposizione messa a disposizione. Questo è comunque utilissimo e sempre più radio dovrebbero farlo, in modo continuo e soprattutto ordinato, non tutti lo fanno in modo ordinato. Però il podcast in sè è una cosa diversa: il mezzo è sempre lo stesso, è audio, è suono però il podcast non ha bisogno di seguire le regole che ha la radiofonia e può sbizzarrirsi in modi anche molto diversi. Ognuno ha le proprie caratteristiche. Con ulteriore vergogna confesso anche di non conoscere podcast italiani per cui spero tantissimo che saranno i vostri lettori ad indicarci qualche podcast, bello e interessante, che parli di musica, o di qualsiasi altra cosa, ma che sia comunque originale.

 

 

Lo smartphone è un dispositivo che sulla carta si adatta benissimo al formato del podcast. In futuro ci possiamo aspettare che il ‘consumo’ di questo formato possa aumentare grazie alle caratteristiche dei vari device?

 

J: Le produzioni podcast esplodono esattamente con la diffusione degli smartphone, ma in Italia abbiamo altri problemi da risolvere, come ad esempio il sovraccarico della banda mobile. Io ad esempio ho un’ora e mezza di percorso per andare e tornare dal lavoro e tra podcast e Spotify a metà mese ho già consumato i miei 2 gb di internet. Le diverse realtà che si occupano di tecnologia dovrebbero parlarsi tra loro e agire con strategie comuni: sviluppatori di hardware, di app, fornitori di rete, editori e autori dovrebbero avere spazi di confronto per poter capire quali sono le esigenze gli uni degli altri e lavorare in un’unica direzione.

 

V: Mi auguro che in futuro questo strumento possa accogliere sempre di più i podcast in maniera ottimizzata. I podcast trovano nel mobile ‘la morte loro’, come pane e burro.

 

 

Gli smartphone, appunto, e quindi le varie applicazioni. Valentina e Robin hanno scelto Telegram come principale canale di diffusione. Ma perché?

 

V: L’abbiamo scelto per diverse ragioni: innanzitutto è meno scattoso di wapp, più aperto e la differenza sostanziale è che telegram dà la possibilità di creare dei canali. Che poi se uno ci pensa, è abbastanza simile alla creazione delle pagine su Facebook. E quindi, sì, Telegram è simile a WhatsApp, perché è un servizio di messaggistica, ma è anche un social. E quindi ci piaceva l’idea di comunicare ad un ampio pubblico, perché il canale su Telegram ha un numero potenzialmente infinito di fan, in una maniera confidenziale, instaurando quasi una conversazione confidenziale, uno a uno. Ovvero, noi ti comunichiamo che abbiamo messo una nuova puntata attraverso una notifica, che è simile poi a quella dei messaggi. Poi lo abbiamo scelto perchè, essendo simile a Wapp, ci piaceva rendere il podcast una cosa simile al messaggio vocale. Per cui sì, il nostro progetto è un podcast, però il nostro approccio e il tono lo rendono simile ad un messaggio vocale.

 

R: Ci sono altri due fattori: volevamo innanzitutto utilizzare un metodo meno convenzionale e più particolare per la diffusione. Quindi non il solito sito frontale o uno streaming su soundcloud o cose simili. E abbiamo visto che uno dei lati positivi di telegram, cosa che abbiamo rilevato in realtà a progetto già partito, è che la gente per ascoltare deve fare un minimo sforzo, quindi sappiamo già da subito di avere un pubblico affezionato. Questo non solo perché all’inizio c’erano solo amici e conoscenti. L’altro fattore, è che tra noi due, ci scambiamo costantemente messaggi vocali. E’ una caratteristica di Valentina che trovo molto bella e che ha infettato anche me. I suoi amici dicono che non ne possono più di questi messaggi vocali. Quindi, perchè non lanciare il podcast in una piattaforma dove la gente si manda anche messaggi vocali?

 

 

 

Feed Me Strawberries mi fa venire in mente quelle pillole di chiacchiere e musica che volentieri ascolto mentre torno a casa dopo una lunga giornata. Dunque intrattenimento puro e fatto bene. Secondo voi cosa è successo nella testa dei vostri ascoltatori nell’ascolto della prima puntata?

 

V: A noi piace questa immagine che hai descritto. Tanto che anche noi l’abbiamo usata all’interno del primo post per lanciare la prima puntata. Poi l’orario è quello del rientro: prima sera, tardo pomeriggio. Ci immaginiamo il nostro ascoltatore in tram, in metro o in macchina, ha passato una giornata a lavoro in ufficio sul posto di lavoro e vuole sentire qualcosa di poco impegnativo. Con una voce che potrebbe essere quella di un amico. Quindi ci piace pensare che sia questa la cornice ideale. La frase, il titolo dei nostri podcast richiamano questo concetto, è una bella richiesta: “Nutrimi di fragole’’, dammi qualcosa di dolce, di prezioso, di colorato, di semplice. E che ti faccia un po’ sorridere, che poi è quello che speriamo di fare con le persone che ci ascoltano: che sorridano e che ci vogliano bene.

 

R: Le nostre sono cose piccole e piacevoli, quello che speriamo è di dare un po’ di piacere anche a chi ci ascolta. Come ha detto lei, di farli almeno sorridere.

 

 

I vostri podcast non vanno oltre i 10 minuti. Un tempo sufficientemente lungo per descrivere, sufficientemente breve da non annoiare. Tuttavia, nel mondo del tutto e subito, dei video virali da 15 secondi, non tutti hanno, ahimè, la pazienza di ascoltare qualcuno dall’altra parte del microfono per più di una manciata di minuti. Inevitabilmente questo vi porterà, almeno credo, a selezionare un target: riuscireste a disegnare il vostro ascoltatore tipo?

 

V: Senza dubbio abbiamo in testa un’idea di puntata come se fosse una trasmissione. E tutta la serie di puntate formerà poi una stagione. C’è una durata di massima e questa per noi è una regola: non più di dieci minuti. A noi piace dire: poco più di cinque e un po’ meno di nove. Poi sappiamo bene come il podcast così, lanciato su internet, è uno dei tantissimi contenuti. Quindi inevitabilmente l’attenzione su questo formato può essere poco costante. Io per prima rimbalzo da un contenuto all’altro e capisco che dopo cinque minuti l’attenzione scemi. Il nostro progetto cerca di inserirsi in quella morbida nicchia di approfondimento culturale, senza metterla giù troppo dura. Per questo ci piace pensare che il nostro ascoltatore potrebbe diventare un nostro amico, con cui passare una serata, o partire alla volta di un festival o di un viaggio.

 

R: Il nostro ascoltatore tipo è una persona curiosa di sentire cose nuove e un po’ diverse dal solito, secondo me. A sentir parlare qualcuno per quasi 10 minuti ci si annoia, è ovvio, ma anche per questo nel corso di questa stagione varieremo molto in fatto di brani trattati e anche di maniere in cui ne parleremo, quindi l’ascoltatore tipo immagino sia uno a cui piace anche la varietà. E a cui piacciono le sorprese.

 

 

Parliamo di sostenibilità economica: il podcasting è o non è un formato più sostenibile di un reportage o di un longform che compare su carta o sul web? Certo, la realizzazione ha probabilmente costi maggiori, ma l’inserzione pubblicitaria (dove non c’è adblocker che tenga) può essere una buona soluzione?

 

J: Non bisogna confrontare il reportage scritto con quello audio, perché sono due strumenti differenti con differenti caratteristiche adatti a contesti differenti tra loro. E nella nostra carestia di conoscenza, abbiamo bisogno di entrambi. Il confronto da fare è tra la radio che stiamo producendo e quella che potremmo produrre. Negli ultimi 15 anni chi come fa l’autore si è sentito dire molto spesso dalle realtà editoriali radiofoniche che  produrre le sue idee “costava troppo”. In realtà ciò che costa è la struttura editoriale alle spalle della produzione (e le prassi di lottizzazione e speculazioni in atto nelle aziende editoriali). Quindi se parliamo di sostenibilità economica dobbiamo chiederci: quanto costa ad una radio produrre 24 ore di palinsesto al giorno in cui i contenuti di ogni giornata cancellano i precedenti e quando costa invece produrre 12 episodi l’anno di un podcast di altissima qualità? Quello che la “radio revolution” sta portando avanti a livello internazionale è un cambiamento soprattutto nel formato editoriale, nel modello di business e più in generale nell’approccio politico alla produzione da parte di autori e nuovi editori.

 

V: Per il nostro progetto si può parlare di costi di tempo. Perché, se ci penso, ogni puntata è una bella fetta di tempo. Ci vogliono settimane per ragionare e pensare all’idea che sta alla base di ogni puntata: bozze su bozze di appunti, scheletri di tracce, prove di registrazione, montaggio, caricamento online e tutta la parte social. Tutte queste fasi, tranne l’ultima, sono costi di tempo. Sui social investiamo anche qualche soldo per aumentare la visibilità del progetto. Tutto il resto è amore.

 

R: Come per qualsiasi cosa un podcast è sostenibile sulla base del progetto che ognuno ha. Nel nostro caso, facendo puntate brevi, il dispendio è tra virgolette solo di tempo. Però se qualcuno volesse fare cose più in grande, tipo per esempio puntate più lunghe, interviste, report sul campo, qualsiasi altra cosa, si rientra già in spese maggiori. Un’inserzione pubblicitaria potrebbe essere utile, però in progetti diversi dal nostro, perché noi abbiamo puntate brevi appunto, e ci teniamo a contenere la durata del podcast così tratteniamo anche meglio l’attenzione dell’ascoltatore, una pubblicità rischia di distrarre.

 

 

Jonathan, tu hai curato il workshop sulla realizzazione di podcast anche al Festival di Internazionale a Ferrara. Che riscontro ha avuto l’argomento e questa modalità di fare giornalismo tra il pubblico e i partecipanti al workshop?

 

J: Dal punto di vista numerico il riscontro è confortante, tant’è che il workshop sui documentari radiofonici al festival di Internazionale a Ferrara è andato esaurito 3 anni su 4, e la rassegna “Mondoascolti” ha circa 1200 ascoltatori ad ogni edizione. L’impressione generale, anche rispetto ai workshop che faccio anche in contesti diversi da quelli del festival da 5 anni a questa parte, è che ci sia da parte dei partecipanti una fame atavica di nuovi scenari e di nuove possibilità, che al momento nessuna azienda culturale pubblica o privata è in grado di garantire. Uno dei problemi maggiori è che la formazione universitaria in ambito creativo e culturale è, tranne rare eccezioni, altamente distruttiva e deleteria per chi la pratica e gli studenti dopo triennali, specialistiche, scuole di giornalismo e master, debbano pure pagarsi un workshop perché si rendono conto di non avere gli strumenti che servono loro per diventare operativi. Quindi in questi workshop, invece di dare alcuni trucchi del mestiere come dovrebbe essere, devo sempre partire dall’inizio, dai fondamentali etici e semiologici sull’ascolto, per cui poi per le questioni produttive rimane molto poco tempo.

 

Quali sono le competenze e gli ingredienti tecnici necessari per realizzare un podcast di qualità? Incoraggereste tentativi a chi non ha alcuna esperienza in materia?

 

J: Kaitlin Prest, una delle più brave autrici di podcast al mondo, ha scritto un breve, illuminante decalogo in cui dichiara, tra le altre cose: “Please. For the love of radio. Do not wake up one morning and decide you know how to make a podcast if you do not know anything about audio. Audio is a craft. It is an art. It must be respected.” Avere un’idea è un buon inizio, ma produrre un podcast significa saper far funzionare un’idea. E se devo prendere la mia storia personale come esempio, mi ci sono voluti due anni di apprendistato con due bravissimi autori e tre anni di studio e ricerca prima di poter produrre il mio primo lavoro di cui ero abbastanza soddisfatto. L’audio è una forma d’arte complessa tanto quanto il cinema, che si annida tra estetica e mercato esattamente come il cinema e chi vuole intraprendere questa strada è giusto che sappia che l’approccio da turista gli farà solo sprecare tempo e soldi. La cosa più importante per me è evitare in tutti i modi che tra un paio d’anni la parola “podcast” diventi il sinonimo di “porcheria fatta male”. Fare gli autori radiofonici è una scelta radicale e rivoluzionaria, e solo questo approccio secondo me può portare a dei risultati solidi e concreti, sia per chi produce che per chi ascolta.

 

V: Si parte da un’idea che appassiona, un’idea che anche anche se sei stanco morto ti tiene sveglio la notte. Quindi questo è un sintomo di un qualcosa che vogliamo offrire agli altri, che vogliamo renderlo pubblico. Quindi si sviluppa questa idea, la si declina, la si testa per vedere se sta in piedi, e poi si capisce da dove si deve iniziare, qual è la prima puntata che renderà riconoscibile il format. Gli appunti diventano una specie di longform, o come il libro degli appunti di Franca Leosini. A tal proposito, recentemente ho letto che Franca, che ammiro in una maniera smodata, usa la tecnica del solfeggio della prosa e studia tutto quello che dirà, stando attenta a tono, accenti, tutto. Le nozioni tecniche entrano in gioco in fase di registrazione e di montaggio, secondo me, e poi sì, andrebbero conosciuti bene i social se poi ci si vuole appoggiare a quelli.

 

R: Incoraggerei chiunque a fare un podcast, anche senza nozioni tecniche, anche senza esperienza alcuna, noi non avevamo. Non esistono ragioni per cui non si dovrebbe fare un podcast, almeno secondo me.

 

Jonathan, tu sei un produttore indipendente: è la soluzione ottimale per creare podcast? Com’è rapportarsi nelle vesti di indipendent producer con grandi network come RadioRai?

 

J: È un discorso molto complesso perché passa anche per questioni burocratiche kafkiane. Essere un autore indipendente per me non è una “condizione”, ma una scelta professionale vera e propria, che ha come valore fondante il collaborare con molte realtà diverse tra loro. In questo modo, quando lavoro per un’azienda come la RAI, io rimango comunque un autore indipendente, perché porto sul tavolo dei miei committenti tutte le contaminazioni e le sperimentazioni che mi posso permettere e che loro non fanno, ed è la stessa cosa che faccio quando mi produco da solo. Oggi essere autori non è solo sedersi con la moleskine al tramonto e scrivere quello che ci ispira, ma è occuparsi di un progetto dalla sua ideazione fino al modello di business e alle strategie di comunicazione. Per chi si affaccia oggi all’audio l’autoproduzione al momento è l’unica strada, ma è la cosa confortante è che oggi è un percorso più che praticabile, che porta ad un continente inesplorato tutto da conquistare.

 

Valentina e Robin, a che punto siete con la programmazione del vostro progetto? 

 

V: Sicuramente ci saranno un minimo di dieci e un massimo di dodici puntate. Durerà fino all’inizio di luglio. Alla base abbiamo questa idea: ogni puntata è costruita partendo da una canzone, quindi ogni episodio varia in base alla direzione suggerita dalla canzone stessa. Non sappiamo se questa direzione sia buona in maniera assoluta. Per noi è una specie di mano con l’indice che indica una direzione, uno spunto per iniziare. Quindi ogni puntata sarà sempre diversa dalle altre, però ci sarà sempre questo tono molto narrativo. A noi ci va di raccontare delle cose.

 

R: Aggiungerò solo che ci stiamo entrambi divertendo tantissimo.

 

 

La strada percorsa da Jonathan, Valentina e Robin, coraggiosamente, è ancora poco battuta. Sarà probabilmente la qualità dei contenuti a indicare la direzione del podcasting in Italia, sperando che questo riesca, prima o poi, a superare il legame materno, riprendendo le parole di Valentina, che ha con la radio.

Ascoltare potrebbe diventare in futuro una delle attività preferite da ampie fette di pubblico per il proprio intrattenimento, o per il bisogno di arricchire il proprio bagaglio culturale, o semplicemente per conoscere la storia di qualcun’altro.

Per ascoltare i lavori di Jonathan basta visitare il suo sito jonathanzenti.it