La qualità dei quotidiani online è sempre più bassa, preferendo le soft news ad un'informazione sana.
Commento ergo sum
«I giornali sono sul web in modo sbagliato», ha dichiarato pochi giorni fa il direttore di TG La7 Enrico Mentana. «Viviamo il web come lo spazio per gli scemi». È presto detto: la linea editoriale dei quotidiani online, tracciabile direttamente dalle loro pagine social, viene spesso additata di opportunismo, di specchietti per clic, di agende setting irresponsabili, volte a stuzzicare gli istinti popolari più biechi. Sesso, cronaca nera, gossip: i social sono dinamici e si muovono tramite algoritmi collegati alle interazioni sui post. Più commenti, condivisioni e like riceve un post, più il flusso informativo della notizia avrà successo, con la conseguente remunerazione pubblicitaria. Possibile, tuttavia, che la parte del «cattivo» sia da imputare soltanto a chi divulga le notizie? Analizzando alcune macro aree di intervento da parte degli utenti su Facebook, le responsabilità di questa mala gestione della stampa online sembrano coinvolgere anche chi non riesce a fruire adeguatamente delle informazioni, avvicinandosi con difficoltà alle notizie che girano sul web e commentandole nella peggiore delle maniere.
Menefreghisti
Uno degli aspetti più criticati dei quotidiani online è lo spazio riservato alle notizie leggere, considerato eccessivamente ampio. Le edizioni cartacee, dopotutto, sono ritenute ancora oggi quelle più importanti e si tende a dare risalto a contenuti meno seri sul web. Se poi ci si mette di mezzo il trend del «menefreghismo social», il gioco è fatto. Basta infatti fare un giro sulle pagine Facebook dei giornali italiani per vedere come i post con più commenti siano paradossalmente quelli valutati meno avvincenti. E di chi sono questi commenti? Proprio degli utenti che biasimano la condivisione della notizia stessa.
Centinaia e centinaia di persone che tengono a far sapere al mondo quanto poco gli interessi quel contenuto. Una contraddizione già di per sé evidente: se non interessa un post, perché fermarsi a commentarlo? La risposta sta in un algoritmo mentale: stigmatizzare le soft news porta spesso ad ottenere molti like. Il consenso diventa così dopamina, quasi una dipendenza, e intanto la notizia accumula feedback negativi, aumentandone l’engagement e aiutandone la diffusione nelle home. «Chi se ne frega». «Basta con questa roba». «Ma che siete diventati Novella 2000»? Insomma: un cane che si morde la coda.
Feticisti dell’off topic
Un dibattito civile è il fine ultimo dell’esistenza dei social. Tuttavia, poter discutere senza esasperare i toni, scambiando opinioni e pensieri con persone diverse e lontane da noi, risulta ancora del tutto utopistico. Soprattutto per la mancanza di linee guida nell’approccio al mezzo comunicativo. In tal senso, una dimostrazione di poco «senso civico virtuale» si può trovare nel cosiddetto off topic, cioè nell’intervenire con commenti che niente hanno a che fare con la notizia in questione, importante o poco importante che sia. Questo atteggiamento ha molteplici declinazioni. C’è il «benaltrismo», ovvero sottolineare come ci siano cose più importanti di cui parlare rispetto alla notizia messa in risalto. C’è il «pollaio politico», che consiste semplicemente nello scambiarsi insulti fra utenti, spesso attraverso giochi di parole e slogan infantili – PDiota, Grullino, Servo della Kast$a, Ciaone, Buonista, E Renzie ke fa?, Risorsa Boldriniana, ecc – che mortificano il dibattito, portandolo ai livelli di una disputa tra tifosi, senza mai entrare nel merito di una vicenda. C’è l’«autodidattismo», dove si critica ferocemente, anche qui senza argomenti, chiunque provi a dare un’opinione su un tema tecnico o settoriale poiché il soggetto – sebbene non formatosi su Wikipedia – assume l’antipatica figura di «maestrino». E si potrebbe proseguire all’infinito. Resta una domanda: ma che c’entra De Benedetti con la moglie di Morandi?
Battutisti
La mancanza di empatia è una delle pecche più evidenti del web. Si pensa che insultare da dietro una tastiera non abbia alcuna conseguenza nel mondo reale. Ecco così che si verificano casi di vera e propria anarchia, con la possibilità di scherzare su tutto. Attenzione. Non parliamo di commenti su pagine satiriche o comiche, ma di contributi lasciati su official page di quotidiani online. Un recente esempio: Hugh Jackman, operato per un tumore, viene bersagliato da battute «ironiche» sulle scarse capacità rigeneranti del suo personaggio più celebre, Wolverine degli X-Men. Solidarietà? Pochissima, forse perché non fa riscuotere like. Quella dell’insulto al vip è peraltro una caratteristica livorosa che accomuna moltissimi utenti. Pochi giorni fa, come potete vedere in allegato, un rapper dei Dark Polo Gang viene pestato ad una fermata del bus.
Sul Fatto Quotidiano, l’intervento con più mi piace è di un account che scrive: «Vorremmo il nome dell’aggressore per porgergli i nostri più sentiti ringraziamenti». Ben 381 i pollici in su. Il più bersagliato fra i vip resta però il povero Gigi D’Alessio. Ad ogni morte eccellente – David Bowie, George Micheal e via dicendo – non mancano mai migliaia di commenti che, rivolti ad un’ipotetica divinità, chiedono uno scambio tra il defunto e l’incolpevole cantante napoletano. Solo e soltanto goliardia?
Giustizieri
Due ragazzi strappano una bandiera in Thailandia? Ergastolo. Una turista incide il proprio nome sul Colosseo? Impalatela. Se fate caso a notizie del genere potrete vedere come la gogna usata ai tempi del Medioevo abbia trovato nel web una sua naturale estensione temporale. Gli utenti di Facebook, per determinate notizie, appaiono spesso smodati, forcaioli, assetati di giudizi arbitrari e di vendette che superano di gran lunga il peso specifico del reato. Il motivo? Di difficile interpretazione. Forse una sorta di esorcizzazione delle proprie colpe. Il biasimare gli altri allontana quelli che potrebbero essere i nostri stessi vizi e ci autoassolve.
Ma è solo una delle tante interpretazioni possibili. Frustrazione quotidiana, istinti di pancia, esterofilia (immancabili i paragoni a senso unico tra gli altri paesi e l’«Itaglia»): i motivi che causano un simile atteggiamento sono tanti e forse ancora più profondi. Un po’ come quelli che portano ad un’altra forma di giustizialismo – qui più inquisitoria – che si trova spesso quando si vuole colpevolizzare la stessa vittima di un abuso. Una ragazza è stata stuprata di notte: che ci faceva fuori a quell’ora? Un bambino è stato rapito e ucciso mentre aspettava lo scuolabus: e dov’erano i genitori?
Webeti
La summa delle precedenti macro aree. Il Ground Zero della Netiquette. Gli «webeti» non solo si relazionano male con il giornalismo online (commenti postati dopo aver letto solo i titoli delle notizie, diffusione di bufale senza controllo delle fonti, complottismo, ecc), ma oltretutto approfittano del mezzo social per insultare alla cieca, esprimere odio e soprattutto diffondere ignoranza. Dalla pagina Facebook «Raccolta statistica di commenti ridondanti», ecco un classico esempio.
Anche qui i problemi appaiono i soliti. Difficoltà a comprendere che il virtuale non è una dimensione parallela. Pensieri espressi con forma approssimativa. Poca voglia di mettere in dubbio le proprie convinzioni. Nessuna intenzione di capire, ma piuttosto di giudicare. Zero rispetto delle persone e delle idee altrui – chiunque non la pensi allo stesso modo diventa automaticamente un «analfabeta funzionale», termine ormai inflazionato – ed infine, ancora una volta, cecità nel rendersi conto che le parole hanno sempre delle conseguenze. E così, girando ancora sulla pagina prima citata… «Sbranato dal pittbull il giorno di Natale», «Siamo sicuri che sia stato il cane?» (Il Messaggero), «Rapina in gioielleria a Chiaia: il bottino è di un milione di euro», «Almeno questi non hanno fatto male a nessuno, pensa quanto male e che danno ci fanno i politici che si fottono i milioni di euro…» (Il Mattino). E via dicendo. Della serie: meglio stendere un velo pietoso.