L'Italia non ha ancora una legge sul reato di tortura e fa finta di non vedere le conseguenze.

Così Erri De Luca descrive il reato di tortura in divisa. Mi permetto di aggiungere che la pedofilia, a differenza della tortura, è un disturbo mentale annoverato tra le parafilie.

 

 “La tortura per me somiglia alla pedofilia di un sacerdote a cui vengono affidate delle vite e lui ne approfitta”.

I toni estremi quando si parla di violenza in divisa

I casi di violenza da parte delle forze dell’ordine nel contesto italiano vengono spesso accompagnati da dibattiti privi di misura e posizioni intermedie: da un lato ci sono quelli dell’ACABiano pensiero, dall’altro quelli che difendono la legittimità della manganellata e della repressione violenta. La rarità, così come la ragione, sta nel mezzo ed è rappresentata da quegli straordinari, a mio avviso, esempi di agenti e membri delle forze dell’ordine che criticano apertamente la violenza perpetrata dai loro colleghi, pur mantenendo un profilo elegante e decoroso nei confronti del corpo che rappresentano.

Non esistono più la destra e la sinistra estreme, si dice, eppure quando si parla di violenza autoritaria gli schieramenti assumono toni estremi e radicali, riducendo ogni possibile dibattito in rissa furiosa e condita spesso da sapori nostalgici.

 

Il disegno di legge fermato due volte

L’iter del disegno di legge sul reato di tortura sembra aver subito l’influenza di questo fenomeno. L’Italia aspetta una legge sul reato di tortura da 28 anni, ovvero da quando fu ratificata la Convenzione delle Nazioni Unite contro la tortura.

Nonostante anche solo la parola sia evocatrice di scenari medievali, nel nostro codice penale non c’è ancora un riferimento alla tortura. Eppure queste violenze sono esplicitamente indicate nella costituzione come azioni da non agire, ha detto Mauro Palma, il garante nazionale per i diritti dei detenuti, anche per rispetto, ha aggiunto, per coloro che non maltrattano la propria divisa.

 

Nel 2014 un disegno di legge relativo all’introduzione del reato di tortura approdò in parlamento anche in conseguenza della pesantissima condanna dell’Italia da parte della Corte Europea per i Diritti dell’Uomo per i fatti della scuola Diaz durante il G8 del 2001. Portava il nome di Luigi Manconi, senatore SEL, ma soprattutto autore del libro “Aboliamo il carcere”.

 

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Luigi Manconi, senatore SEL, ma soprattutto autore del libro “Aboliamo il carcere”

 

Il percorso di quel disegno di legge si è fermato due volte: la prima nel 2015, quando fu ridefinito e modificato a tal punto da accendere le critiche del suo stesso propositore.

 

Manconi, in quella circostanza, disse che il disegno di legge era divenuto mediocre, ma che comunque sarebbe stato meglio di nulla. La seconda sospensione, questa molto più sorprendente, è avvenuta nel luglio del 2016, quando alle critiche di Lega Nord e Forza Italia si sono aggiunte quelle del Nuovo Centro Destra e del Partito Democratico. In particolare, l’allora Ministro degli Interni Angelino Alfano insistette affinché si inserisse la parola reiterate in questo contesto:

 

Chiunque, con violenza o minaccia grave, cagiona reiterate lesioni o sofferenze fisiche o psichiche ad una persona, al fine di ottenere da essa o da altri informazioni o dichiarazioni ovvero di punirla per un atto che essa o altri ha commesso o è sospettata di aver commesso ovvero di intimorirla o di condizionare il comportamento suo o di altri, ovvero per motivi di discriminazione etnica, razziale, religiosa, politica, sessuale o di qualsiasi altro genere, è punito con la reclusione da tre a dieci anni. La stessa pena si applica a chi istiga altri alla commissione del fatto o non ottempera all’obbligo giuridico di impedirne il compimento.

 

Dalla discussione sull’inserimento di quella parola, che, si capisce, cambia radicalmente il senso della legge, non si è più parlato di reato di tortura.

Tra le varie dichiarazioni di Alfano in quei giorni ce n’è una che difficilmente può essere mandata giù:

 

“le forze dell’ordine stanno facendo un lavoro eccellente, che non può avere il freno derivante dall’ansia psicologica i dalla preoccupazione operativi in un contesto complesso nel quale dovrebbero venire a trovarsi”.

 

Della serie, non è che gli agenti possono stare attenti a torturare in un momento di concitazione, se ci scappa ci scappa. Esattamente quello che è successo, come abbiamo appreso recentemente, a Stefano Cucchi.

 

“Le forze dell’ordine devono fare il loro lavoro”

D’altronde, il caso Cucchi, ma anche quanto successo a Federico Aldrovandi e a tutti gli altri, non è altro che diretta conseguenza del temporeggiare politico italiano sull’argomento. Riecheggiano ancora nelle orecchie dei più sensibili le parole di Matteo Salvini, che all’indomani della sospensione dell’iter del disegno di legge disse che sì, la tortura non va bene, “ma dobbiamo anche permettere alle forze dell’ordine di fare il loro lavoro”. Si unì a lui anche l’immancabile Maurizio Gasparri che, d’altra parte, su Cucchi aveva da dire che le mancanze erano state della famiglia, negligente nell’aiutare il ragazzo mentre si drogava.

 

 

E così tra un referendum e una caduta di governo e nell’immobilismo politico italiano, il fascino della divisa vince sullo stato di attesa in cui versano le Nazioni Unite nei confronti della decisione che l’Italia prenderà sulla tortura. Sempre ammesso che ne voglia prendere una.

 

La necessità di un disegno di legge simile deve essere valutata anche in relazione al fatto che, a causa delle esigenze anti-terrorismo, civili e forze dell’ordine si trovano sempre più a convivere all’interno di piazze, musei, stadi, stazioni ferroviarie ed aeroporti. In questo senso, è necessario che il rapporto tra tutti gli attori di queste dinamiche siano quanto più regolamentati possibile. Le persone devono percepire sicurezza e affidabilità sfiorando le divise che trovano nella loro passeggiata, non certo intoccabilità o timore. E’ anche da qui che passa il rispetto e la giusta considerazione di chi indossa una divisa.

 

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