L'Hip Hop e la sua trasformazione da movimento culturale a bene di consumo di massa.

Come scrivevamo in “The Bronx is Burning – Alla scoperta della cultura Hip Hop”, l’Hip Hop, composto dai quattro pilastri del rap, dei graffiti, della break dance e del djing, nacque a cavallo degli anni 70 nel Bronx, come risposta culturale alla graduale ghettizzazione del quartiere e all’aumento della fragilità del suo tessuto sociale. L’evoluzione di questo fenomeno è interessante e peculiare. Infatti, nato in un contesto di degrado urbano per denunciare le condizioni in cui decine di migliaia di afroamericani erano costretti a vivere, si è andato trasformando da “movimento culturale a bene di consumo di massa”. 

 

Nell’analizzare il contesto sociale di riferimento che partorì l’Hip Hop, è vitale sottolineare che un ruolo fondamentale fu giocato dall’ondata di discriminazione razziale che ha interessato il Bronx, ed in generale l’America, a cavallo tra gli anni 70 e 80. Questa, insieme a disoccupazione, incendi dolosi, perdita di servizi pubblici, riduzione nella spesa pubblica legata alle imposte di proprietà, e sviluppo urbano coatto tramite superstrade e palazzoni che spaccarono a metà interi quartieri, determinarono la nascita di una comunità violenta, dove le gang di strada la facevano da padroni. È la risposta a questa situazione che genera la nascita di una nuova cultura. Infatti, fu proprio in questi periodi di difficoltà e di accesi conflitti, che le persone non desistettero dall’aggregarsi per far festa, per ascoltare musica e per evadere da questa difficile condizione insieme. È in questo contesto che nacque l’Hip hop [1].

 

Indeed, as blues was said to come from an oppressed and enslaved labor force, Hip Hop was to come from joblessness.” (Jeff Chang).

 

Hip hop: nascita e morte

 

Tutti conoscono la ormai quasi leggendaria storia del primo party hip hop, tenutosi nella sala comune di un palazzone su Sedgwick avenue nel sud del Bronx. L’host era Dj Kool Herc, che arrivò in America dalla Giamaica con la famiglia qualche anno prima – portando con sé la conoscenza dei sound system giamaicani e del toasting: la pratica di parlare sopra dischi di R&B. La Giamaica aveva già gli ingredienti che compongono il rap, ma fu Campbell a combinarli in un perfetto mix distruttivamente creativo tirandone fuori un nuovo stile musicale: il rap appunto [2].

 

La creazione del nuovo stile generò un fermento senza pari nella community, anche perché a questo si legarono inevitabilmente la nascita del djing e della break dance. A Kool Herc, noto per aver introdotto la tecnica del break-beat djing, si aggiunsero altri pionieri che, in una prima fase di evoluzione del genere, si fecero un nome a suon di hit e nuove tecniche di mixaggio. Gli altri due grandi nomi che è impossibile non menzionare sono Grand Master Flash e Afrikaa Bambaataa. Il primo è il padre dello scratching, il secondo redento dall’attività di street gang con i Black Spades e illuminato da un viaggio in Africa, sarà un faro per il mondo dell’Hip Hop e per la promozione della cultura Afroamericana con la sua Zulu Nation.

 

La scena andò evolvendosi e le prime jam iniziarono a spuntare anche fuori dal perimetro del Bronx: in Harlem e Brooklyn. Tuttavia nessuno aveva ancora realizzato il potenziale economico che si celava dietro al nuovo genere musicale. Vi erano ancora ricerca di purezza e sperimentazione che si univano con l’esigenza di espressione e di denuncia delle condizioni in cui migliaia di persone si trovavano costrette a vivere.

 

The point wasn’t yet rapping, it was rhythm, djs cutting records left and right.” (Bill Stephney)

 

Fu solo nel 1979 che, dopo svariati tentativi andati male, un’etichetta discografica produsse la prima hit rap. La Sugar Hill Gangs, composta ad hoc per il singolo, sfornò “Rapper’s delight” prodotta dalla Sugar Hills Records. Il singolo entrò dritto nella Top 40 hit del Billboard Hot 100 rendendo nota all’America l’esistenza dell’Hip Hop, al costo però di spostare il discorso incentrato inizialmente sulla condizione della community ai rappers e la loro vita, che da questa data in poi verrà sempre più mitizzata [3].

 

“I said, “By the way, baby, what’s your name?”
She said, “I go by the name Lois Lane
And you can be my boyfriend, you surely can
Just let me quit my boyfriend, he’s called Superman.”
I said, “he’s a fairy, I do suppose
Flying through the air in pantyhose …
You need a man who’s got finesse
And his whole name across his chest”

 

 

Con la hit sfornando dollari per l’etichetta e i musicisti, il rap, e con esso l’Hip Hop, nella sua forma originale (Old school) e nei suoi contenuti iniziali (volti a esporre la dura realtà del ghetto e della discriminazione razziale) muore, per rinascere contestualmente come “bene di consumo” – sulla via per essere destinato al grande pubblico, ovviamente bianco.

 

Si ha dunque il primo mutamento radicale del genere e degli scopi del movimento, che portò la scena a spaccarsi in due. Da un lato vi erano gli artisti a favore della produzione di nuovi pezzi più commerciali sul dance andante, stimolati dal flusso di verdoni che entrava nelle loro tasche; dall’altro vi erano i puristi del genere, i fondatori, coloro che non si fecero abbindolare dai soldi e decisero di “rimanere veri”. Dunque mentre artisti come GrandMasterFlash sfornavano pezzi come “The Message”, in cui si denuncia e descrive la vita del ghetto in modo sensazionalistico e studiato ad hoc per vendere, altri si trovavano totalmente ostili: Russell Simmons presidente della Def Jam Records rispose a una domanda su “The Message” in modo sufficientemente emblematico: “Mi ricordo di quella volta in cui Dj Junebug fu minacciato con una pistola alla tempia da Ronnie Dj mentre suonava al Fever, perché aveva appena droppato la puntina del suo giradischi su The Message. Junebug si vide costretto a rompere il disco per aver salva la pelle e continuare a mixare”.

 

It’s like a jungle sometimes
It makes me wonder how I keep from goin’ under…
A child is born with no state of mind
Blind to the ways of mankind
God is smilin’ on you but he’s frownin’ too
Because only God knows what you’ll go through
You’ll grow in the ghetto livin’ second-rate
And your eyes will sing a song called deep hate”

 

 

Rinascita pop

 

Con la morte della Vecchia Scuola i canoni del rap si fecero più flessibili e l’evoluzione di questo più rapida. I crescenti investimenti volti a sfruttare il grande interesse generato dal fenomeno culturale, ebbero l’effetto di indurre una rottura rispetto a quella che era la audience iniziale. L’hip hop fu gradualmente dato in pasto ad un manipolo di ragazzini bianchi curiosi di sapere come si vive al di fuori dell’agio borghese, di fatto invertendo la logica di produzione culturale: l’offerta artistica divenne ogni giorno più ostaggio dei gusti della audience e iniziò a modellarsi sulla domanda di questa.

 

Il cambio fu in realtà ancor più profondo. Non solo si ebbe una borghesizzazione dell’audience, ma anche di chi fa rap. I Run-DMC, per esempio, sfondarono gli schermi e i palchi di svariati eventi a New York, nonostante la loro estrazione sociale fosse tutt’altro che povera: ragazzi di buona famiglia quando non sul palco, ma bad guys una volta su questo. Dopo che vennero globalmente consacrati grazie alla cover degli Aerosmith, “Walk This Way”, furono proiettati sulla luna.

 

 

In questa seconda fase di vita dell’Hip Hop, giocò un ruolo chiave Rick Rubin. Visionario anticipatore di transizioni culturali, a 19 anni fondò la Def Jam Records, e segnò a contratto i Beastie Boys che con “Licensed to Ill” vendettero il primo milione di copie con un prodotto rap. “L’apparire di artisti bianchi in generi musicali originariamente neri, è storicamente stato preludio del passaggio del genere in oggetto dalla nicchia al mainstream” [4]. Con il rap, o l’Hip Hop in generale, questo non avvenne: sebbene la domanda musicale venisse da giovani bianchi, e questo era quello che faceva girare il mercato, ciò che tutti volevano era “musica nera fatta da neri”.

 

Fu sempre Rubin a non farsi accecare dal successo raggiunto con i Beastie Boys e rendersi conto che il pubblico voleva artisti neri.  Per questo segnò a contratto i Public Enemy. Giovani della classe media, che denunciavano nei loro testi (definite “intime conversazioni dai substrati della città”) il diverso trattamento che ricevevano rispetto ai loro coetanei bianchi

 

“Elvis was a hero to most
But he never meant shit to me, you see
Straight-up racist that sucker was simple and plain
Motherfuck him and John Wayne

‘Cause I’m black and I’m proud
I’m ready and hyped, plus I’m amped
Most of my heroes don’t appear on no stamps”

 

 

A fine anni 80, con l’affacciarsi del nuovo decennio, il rap era ormai pronto per una nuova morte e per una nuova rinascita. KRS-One era il nuovo elemento fresco sulla scena newyorchese, nonostante non apportò niente di realmente nuovo e non fece altro che rafforzare il trend avviato da “Rapper’s Delight” in cui il protagonista dei testi è lo stereotipico gangsta rapper, piuttosto che la disastrata community.

 

Se in New York il rap, e la cultura Hip Hop in generale, erano tra i movimenti di punta, in America altre scene parallele si stavano consolidando. L’HH in America non aveva più confini e da Philly e dalla California altri microcosmi con caratteristiche simili a quelle del Sud del Bronx iniziano a esibire i loro talenti. Schoolly D a Filadelfia introduce nelle sue lyrics ulteriore violenza e per la prima volta il crack, ma nonostante il mezzo milione di copie vendute la sua audience non è ancora definibile di massa; toccò agli N.W.A., Niggaz Wit Attitudes, questo compito. Dal cuore della violenta Compton, nel 1989 fecero il boom con “Straight Out of Compton” dando in pasto alle masse di adolescenti bianchi liriche violente in stile Schoolly D.

 

Nel film su Dre e compagni, “Straight Out Of Compton”, la storia dell’album è romanzata a meraviglia, specie le tensioni con l’FBI che derivarono da “Fuck the Police” (a cui VICE ha dedicato un documentario), uno dei primi testi con l’obiettivo di condannare apertamente il razzismo perpetrato dalle forze dell’ordine contro gli Afroamericani.

 

“”Fuck the Police” coming straight out the underground
A young nigger got it bad ‘cause I’m brown
And not the other color
[…]”

 

Il completamento del processo di pop-izzazione dell’Hip Hop, e il definitivo utilizzo del genere come mangime per orecchie bianche e giovani (specie nella fascia 16-24, come descritto da Doug Herzog Vice presidente di MTV all’epoca) fu imposto da MTV che, mentre la scena si popolava ogni giorno di nuovi nomi, decise di lanciare “YO! MTV Raps”, portando così la cultura Hip Hop nelle case degli americani e poi del Mondo.

 

L’Hip Hop così muore ancora, e rinasce definitivamente come cultura di massa (pop appunto) a tutti gli effetti.

 

Il concetto di morte, proposto più volte nel corso dell’articolo, non vuole avere una valenza necessariamente negativa, ma semplicemente è ciò che scandisce le fasi di un movimento culturale che, nato come spontanea forma di protesta, si è gradualmente spogliato dell’essenza per vendersi alle masse.

 

Saltando i mitici 90, epoca d’oro di definitivo consolidamento del genere, e venendo ai nostri giorni il tema della “morte dell’HH” continua a tornare:

 

“Everybody sound the same, commercialize the game
Reminiscin’ when it wasn’t all business
If it got where it started
So we all gather here for the dearly departed
[…]
Went from turntables to mp3s
From “Beat Street” to commercials on Mickey D’s
From gold cables to Jacobs
From plain facials to Botox and face lifts
I’m lookin’ over my shoulder
It’s about eighty niggaz from my hood that showed up
And they came to show love
Sold out concert and the doors are closed shut”

 

L’Hip Hop è dunque morto come diceva Nas nel 2006, oppure è entrato ancora una volta in una nuova fase, come le tante nuove leve ci possono far sperare?

 

——  

[1] “Can’t Stop, Won’t Stop: A History of the Hip Hop Generation” di Jeff Chang, 2005.

[2] “The Evolution of Rap Music in the United States” di Henry A. Rhodes. Yale-New Heaven, 1984.

[3] “That’s the Joint!: The Hip-hop Studies Reader” di Murray Forman e Mark Anthony Neal, 2004.

[4] “Encyclopaedia Britannica: Hip Hop (culture)” di Greg Tate e Alan Light, Settembre 2014.

 

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