Dal nostro inviato a Nuova Roma - ottobre 2040.

Quando arrivarono i primi carri armati, molti pensarono che si trattasse solo delle famose ruspe di Salvini. Era da oltre settant’anni che non si vedevano scene del genere, in Italia.

 

Più tardi, cominciarono a scendere gli squadroni in tuta nera, con quei loro sfarzosi fazzoletti verdi al collo, e la gente pensò che fosse solo un miglioramento delle strutture di difesa, inevitabile in vista della guerra contro il terrorismo moro.

Fu quando iniziarono ad ordinare il coprifuoco, ad arrestare i dissidenti, a chiudere i negozi degli immigrati, che prese a muoversi qualche debole protesta. In principio, solo gruppi di studenti isolati, facilmente contenibili a colpi di manganellate. Più avanti, si unirono anche le minoranze multietniche, e le sommosse assunsero i contorni della guerra civile.

 

Il primo sparo sulla folla lo ricordo ancora bene, avevo diciott’anni, squarciò l’aria come un tuono e poi si incise nel cuore di tutti con l’urlo lungo di una raffica. Era la guerra, e nessuno l’aveva mai vissuta, fuori dai videogame, in Europa. I soldati sparavano sulla folla, e non era un film, non era la Parigi della restaurazione, nè la Milano di Ferrer… era Roma, nel 2020, centro nevralgico dell’Europa unita.

Credo che tutto cominciò nel 2008, quando la crisi dei mutui subprime impoverì larga parte della popolazione occidentale. Il ceto medio fu preso in mezzo fra una tassazione sempre più alta e una graduale mancanza di risorse economiche, livellandosi verso gli strati più bassi della popolazione. La società si polarizzò in due tronchi sproporzionati: c’erano i ricchi, poco più dell’un per cento, che diventavano sempre più ricchi, e poi c’erano i poveri, che diventavano sempre più poveri. Nel mezzo, un fare politica che aveva perso ogni forma di credibilità, aprendo la strada ad epidemici vuoti di potere.

 

Successe così che tornarono ad affacciarsi sulle finestre dell’Europa vecchi fantasmi che sembravano ormai esorcizzati da anni. Dapprima, sembravano solo echi isolati, goffi tentativi di far leva sulle pulsioni più recondite della popolazione. Nacquero così i Salvini in Italia, le Le Pen in Francia, il movimento Brexit in Inghilterra… ma pensammo tutti che fosse solo un naturale rigurgito di xenofobia, populismo inevitabile in regime di impoverimento collettivo. Sarebbe tutto scoppiato in una bolla di sapone, non appena l’economia avesse ripreso a girare… ma l’economia non riprese, peggiorò. Fece ancora peggio di peggiorare, si lasciò violentare da manipoli specializzati di affaristi senza scrupoli. Topi da azionariato, locuste da mercato del forex trade. Di questo passo, l’umanità continuò ad abbrutirsi, schiacciata com’era dalla povertà, da un lato, e dai suoi bisogni storici, dall’altro. E nessuno che riuscisse a mediare una soluzione.

 

Così, col tempo, nacquero i nuovi nazionalismi, e poi le nuove razze superiori. Nuove, perché declinate al tempo presente: il duemila dei fast food. All’inizio, credemmo che fosse solo un rigurgito di succhi gastrici. Del resto, chi non si è mai svegliato per un reflusso esofageo, di notte? Sulle prime fa un po’ schifo, ma poi lo inghiotti e ti rimetti a dormire.

 

Poco dopo, però, cominciarono ad alzare i muri. Avevano vinto, potevano farlo. Potevano alzare tutti i muri del mondo fino ai confini conosciuti. Muri alti decine di metri dallo stretto di Messina a Gibilterra. Muri come se l’Europa unita fosse il problema. Muri nuovi, di una grammatica sperimentale ma intramontabile: c’era la crisi, e il problema era inevitabilmente fuori. Il nemico, i mostri, erano esterni, e tutto quello che richiamava casa, sicurezza, riparo, doveva essere difeso. C’era bisogno di una forza che unisse insieme vecchio e nuovo in una sola istanza protettiva, in un unico credo, egualitario nelle differenze. Fu così che salì al potere Donald Trump, il magnate degli hotel, col suo gatto in testa e una costellazione di stereotipi sotto braccio. Gli immigrati che rubavano il lavoro, i cinesi che minacciavano la stabilità commerciale, i gay che ostacolavano la crescita demografica. Declinazioni contemporanee della stessa retorica classista. Roba ampiamente superata dal Novecento rivoluzionario. E infatti, ancora una volta, tutti pensarono che fosse solo una provocazione. Uno scherzo di qualche repubblicano giocoso su a Wall Street, un pericolo esorcizzabile con un giro di click sul telefonino.

Quando Trump sganciò la prima bomba su Pechino, era già troppo tardi per tornare indietro. La miccia era stata accesa, l’industria aveva ripreso a muoversi. Paradossalmente, vivemmo pochi anni di breve ripresa economica. Il denaro aveva ripreso a correre e il suo Dio infieriva a passo di danza sui cadaveri lasciati a marcire per le strade della Cina. L’America aveva vinto di nuovo. Il sogno americano poteva dirsi salvo. Restaurato, come dopo Napoleone. Al suo posto, muri alti decine di metri sulle coste est ed ovest. Col tempo, i muri cominciarono a crescere ovunque, parevano edera mentale, e non c’era diserbante se non nella ragione. Ma la ragione era morta nella pancia dei voti semplici.

 

Così continuarono ad alzare muri, un po’ ad ogni latitudine, fra America ed Europa, nell’occidente democratico e di democrazia esportatore; e tutti quelli che si ribellavano venivano spinti verso il basso, a sud, a “simpatizzare con gli immigrati”. Il nuovo nazionalismo partì come un’esortazione, un esercizio di retorica poco convinto, poi si tradusse in commedia, per quanto avesse tutti i contorni della tragedia.

 

Tragedia, sì, perché la storia si ripete sempre due volte, dicono, “la prima come tragedia, la seconda come commedia”, ma non c’era niente di comico nella costruzione dei ghetti multirazziali. Un’idea condivisa: l’unico accesso all’uguaglianza dei nuovi populismi, i ghetti multirazziali. Dove dissidenti ed immigrati di ogni estrazione venivano stipati in maniera coercitiva, pena la morte. Ghetti di reietti in pieno occidente industriale, come nei secoli più bui, una babilonia di ammassati, reietti in casa propria. Da Parigi a Vienna, da Washington a Milano, la gente si unì in un’unica volontà di emarginazione delle minoranze, laddove minoranza significava diversità di pensiero. Non contenti, i nuovi nazionalismi si unirono contro lo straniero non occidentale, contro tutto quello di diverso da Europa e Stati Uniti. L’Europa che avevano ucciso, uniti, in nome di una autonomia che non trovava altra risposta che nel rifiuto di ogni mescolanza. Come se ci potesse essere unione, nell’odio.

Ma loro la trovarono. E fondarono l’alleanza transatlantica delle razze occidentali contro il panta-terrorismo straniero, così da poter muovere guerra a tutti quelli che non avessero natali cristiani, o pelle bianca, o tratti somatici non puramente occidentali.

 

Erano tanti, lividi e esacerbati, forti di uno schema di pensiero lineare, ma non riuscivano a leggere oltre l’odio spicciolo. Nei ghetti che loro stessi avevano creato, invece, la gente cominciò a unirsi. Non fu facile, ma i reietti sapevano di non avere altra scelta. Sapevano che Babilonia sarebbe collassata se non avessero cominciato a parlare la stessa lingua. E così fecero. Si organizzarono, cominciarono a incontrarsi per strada, a rispettare ognuno propri tempi e credenze. Impararono a non intervenire nelle questioni altrui con interesse, ma a costruire in parallelo una società nuova, estesa, eterogenea ma compatta. In equilibrio. Fu la difficoltà ad unirli nella diversità, non l’odio, e non poteva esserci rivoluzione più grande.

 

Nacquero così le città ribelli. Dapprima, i nuovi regimi sembrarono non farci caso, presi com’erano dalle guerre contro ogni forma di straniero. Ma poi gli stranieri finirono, e i muri erano sempre più piantonati da bande armate di insurrezionalisti.

Quando sono entrato a far parte della milizia per le nuove repubbliche, ero poco più di un bambino. Avevo visto i carri armati entrare a Roma, ma non avevo idea di quello che i nuovi regimi erano capaci di fare. Non potevo credere che pagliacci dallo stereotipo facile fossero in grado di armare la mano delle menti più fragili del sistema. Ma poi ho capito che non esisteva niente di più semplice che armare la pancia delle persone fragili. Bastava riempirla di certezze, in un’epoca di insicurezze, sarebbe esplosa da sola. La cosa più triste, con questo genere di persone, è che raramente danno seguito alle proprie parole, sono le loro parole, più tardi, ad inseguirle. Ma a quel punto non fanno più effetto su nessuno, e sono solo un capitolo triste sui libri di storia.

 

Questo però, a Nuova Roma, gran parte della gente ancora non lo sa. Vive nel terrore che da un giorno all’altro il Trump di turno possa svegliarsi e annientare quei pochi stracci di mondo ancora rimasti. Le proprie baracche, quei tre animali che possiedono, il pozzo scavato con fatica negli anni.

 

I libri non sono ancora arrivati. Il governo centrale lancia solo, sporadicamente, qualche copia della gazzetta ufficiale, utile giusto per il fuoco nei mesi più freddi. Da oltre il muro, arriva musica commerciale e, ogni tanto, qualche programma tv spazzatura. Siamo vivi oltre la guerra, ma ai nuovi regimi non interessa, e tutto questo gioca solo a nostro vantaggio. Nella nostra unione, hanno già perso. Nel nostro superamento delle barriere umane, abbiamo già scalato a piene mani quei muri. E loro hanno fallito, magari ancora non se ne sono accorti, ma io ho già visto quei muri crollare. Come in ogni dopoguerra. E questa volta non c’è stato spargimento di sangue, ma di idee.

 

***

Ultimamente, ho notato una cosa strana. Certe notti, prima di dormire, ho come la sensazione di sentire quel muro scricchiolare. Potrebbe essere solo una mia suggestione, o magari è il loro odio che li corrode dall’interno. Non saprei, è difficile distinguere i rumori, all’inferno. Però poi, con calma, mi addormento, e non potrebbe esserci ninna nanna migliore…