Io che sono l’ultimo, parlerò al vuoto in ascolto…

Disegno di Daniele Lari.

Disegno di Daniele Lari.

Anche se la via meno angusta era poco distante, mi infilai negli arbusti di fronte.
Evitai di dare tempo al cervello di presagire cosa ci sarebbe stato oltre.
Oltre quello che già era difficile vedere.
Presi aria e la sentii sprofondare, pesante.
Aveva il sapore del sale.
La cassa toracica aveva assunto le sembianze di un cilindro trasparente che dava modo di vedere il movimento “sbisciolante” dei polmoni.
Questi facevano oscillare i bronchi, strattonandoli come i capelli di due donne durante una rissa.
La respirazione si beffava  dei comandi imposti dal cervello e danzava sulle note del cuore:
Ero imbastito di ossigeno più di quanto ne avessi bisogno. Ero drogato.
E i miei organi pompavano al massimo, per farmi fuggire, scomparire, ma
la sensazione di stare fermo ammutoliva il trambusto delle sterpaglie che spezzavo mentre correvo.
L’affanno mi soffocava… mentre l’intreccio dei rami rallentava lo scatto e lacerava la speranza di non essere raggiunto.
Intanto le bracciate, che accompagnavano la corsa, oscillavano come le bielle di una nave prima dello schianto: vedevo le mani, ora irrigidirsi per forare il buio, ora penzolare dall’avambraccio per recuperare e sostenere il bilanciamento del corpo livido.
Le mie emozioni erano affogate nel colore della pineta, che sanguinava sulla mia faccia…
E avevo il buio controcorrente e l’oscurità che mi pedinava pedissequamente.
Non ricordo se ero vestito. E’ importante?
Mi sentivo nudo nella rincorsa delle ginocchia che, per picchiare lo spazio, abbigliavano la foresta con i brandelli della mia carne.
“Non ricordo quando tutto ebbe inizio, forse mesi fa.
La tensione era al massimo, spaventosa: a un periodo di sconvolgimenti politici e sociali si aggiungeva la strana, indefinibile sensazione d’un orrendo pericolo fisico.
Un pericolo enorme, che gravava su tutto, come lo si può concepire negli incubi più angosciosi.
Ricordo che la gente andava in giro con le facce pallide e preoccupate, bisbigliando avvertimenti e profezie che nessuno osava poi ripetere consapevolmente o soltanto ammettere di aver udito.
La terra era oppressa da un mostruoso senso di colpa e dagli abissi fra le stelle soffiavano gelide le correnti che facevano rabbrividire gli uomini nei luoghi bui e solitari.
Il corso delle stagioni aveva subito un’alterazione catastrofica: il tepore dell’autunno indugiava ad andarsene e sentivamo che il mondo, forse l’universo, si era sottratto al controllo degli dei o delle forze conosciute ed era passato sotto il dominio di entità inimmaginabili.
Non era previsto che ci allontanassimo dalla nostra placida isola d’ignoranza.
Non era permesso spingerci in mezzo a neri mari d’infinito, troppo lontani.
Mi voltai e vidi la mia corsa proiettarsi nella foresta come se una luce, dalla parte opposta, illuminasse i miei movimenti. Respiravo!
Comandai la mente di inviarmi saliva. Dovevo scrostare la lingua dal palato, cui era rimasta “stalattitica”.
Non c’erano luci! Eppure i miei passi echeggiavano per chilometri, allungandosi, in lontananza, fin sulla cime degli alberi, fino alle Pleiadi.
Nepente e cicuta mandò il cervello in bocca, e sentii l’amaro morte insidiarsi nei denti.
Odorai la morte annidarsi nei fori delle carie e spaccarmi la bocca in due per saziare la paura.
Non c’erano luci! Eppure la cacofonia dei passi invertiva la rappresentazione delle ombre come se fosse una fonte di buio a illuminarmi, distendendo uno spettro di grigi chiaroscuro per sagomare la prospettiva del mio corpo all’infinito…
Cacciai un urlo.
Il vento lo portò fino al mare, fracassandolo negli scogli.
Ora devo essere molto attento a scegliere bene le parole:
D’un tratto fiutai nell’anima della foresta un timore reverenziale. I miei occhi si tinsero di ghiaccio e l’imprevisto collimò con l’incredibile…
Notai le ombre del mio corpo addensarsi prima in un nugolo di demoni, poi ramificarsi, togliendomi il tempo di pensare che davanti alle ombre…erano le mie ossa che si modificavano, trascendendo qualunque forma più orrida del pensiero.
L’orrore, misericordioso, anestetizzò il dolore e l’angoscia delle conseguenze, ma paralizzò la mia memoria in un ritratto di me che non era più umano.
Vidi l’abietta degradazione della nostra natura,
l’anatomia dell’orrore,
la fisiologia della paura,
la precisione delle linee e le proporzioni che scaturiscono dalle pulsioni latenti,
la memoria ancestrale del terrore,
vidi il senso sopito dell’alienazione risvegliato dai contrasti del colore e dagli effetti di luce.
Goya stesso aveva trasfuso, con soggezione, la quintessenza dell’inferno in quel ritratto.
“Ora avevo l’aspetto di quelle potenze o immani entità di cui si può solo immaginare una forma di sopravvivenza come residuo di un’età remota in cui… la coscienza si manifesta con aspetti e forme da lungo tempo ritrattesi davanti all’avanzante marea dell’uomo… forme di cui solo la poesia e la leggenda hanno conservato memoria, battezzandole col nome di dei, mostri ed esseri mitici di ogni specie…”
Mi sentii afferrare da un terrore cieco che paralizzò tutti i miei organi e non mi abbandonò finché non riposai in pace;
poi palpai le tenebre farsi luce: si trattava di una qualità positiva del buio perché oscurava il paesaggio, bruciando la distanza tra la foresta e il mare.
Cosi nero.
Sembrava che la notte dovesse traboccare all’esterno dopo milioni di anni di prigionia, e in effetti anche la luna fu oscurata da ali nere e membranose, il cielo rimpicciolì fino a un punto e acquistò un aspetto malsano.
Conobbi l’odio, verso me stesso. Volevo farlo smettere. Tambureggiava  claudicante e forastico di una sorgente.  Basta!
Provai a piangere, ma i muscoli del viso si crettarono cadendo nell’oblio.
Come si piangeva? Basta! Non avevo il controllo del mio corpo e il suono si propagava nel mio turbamento come le vibrazioni nell’acqua.
Inarcai la schiena come per spezzarla. Più mi agitavo e più sentivo le mie viscere partorire nuove pulsazioni e sconvolgimenti che fratturavano la mia estetica in un mosaico conquistato, dilapidato e minato nella sua integrità.
Solo un poeta o un folle avrebbe potuto descrivere i suoni che salmodiavano in coro fuori e dentro di me.
Mi accasciai nell’anomalia dell’istante, coperto di avversione, piano piano sfiducia, piano piano paura.
E’ sbagliato credere che l’orrore si manifesti inevitabilmente al buio o nella solitudine:
l’orrore è dentro, sempre.
Al contrario di come avevo pattuito con l’aspettativa, appena toccai terra, la mia faccia non si tumefece.
Eppure caddi forte, senza speranza, senza controllo di quello che rimaneva del mio corpo.
Smisi di respirare. La botta aveva leso la mia forma.
Sentivo le carezze delle onde che mi travolgevano tentando di portarmi via, di togliermi alla vita come il veleno si estirpa da una ferita.
Era ancora più buio. Mi affidavo al sesto senso per ricreare la dimensione dello spazio e pregavo la memoria di aiutarmi a ritrovare qualunque effimero a cui appigliarmi per realizzare chi dovevo incolpare.
Con gli ultimi aneliti riconoscibili, tossii fuori l’acqua che mi stava pian piano annegando.
Detti modo alla bocca di spalancarsi e respirare, per l’ultima volta, il sapore della vita.
Quando richiusi la mandibola colsi un’anomalia nell’occlusione dentale tutt’altro che impercettibile. Ero già morto?
Percepii lo spostamento e la presenza di qualcosa tra i denti che rendeva la mia lingua inquieta come la coda di un gatto indisposto.
Deglutii ancora.
Trattenni il respiro e quando l’ossigeno inondò la bocca sentii il sapore.
Non era sabbia, era la Medicina: Paroxetina.
Per fortuna esiste un balsamo che funziona bene quanto l’odio, ed è la capacità di dimenticare; adesso il mio presente si salva soltanto perché è troppo stupido per interrogare il passato da vicino.