Cerco la posizione. La trovo disteso. Appoggio la testa su un cuscino e mi godo il giorno e la notte susseguirsi repentinamente mentre le nuvole giocano con i raggi solari alternando una temperatura un po’ bizzarra.

Chiudo gli occhi.

Lascio che i canali ionici nel mio cervello recuperino il loro gradiente di concentrazione. Aspetto l’esplosione del potenziale di azione e intanto arpeggio con il tempo…

Socchiudo la porta della realtà, ma non del tutto, voglio lasciar entrare un po’ d’aria e allo stesso tempo mantenere un contatto, un salvagente, che mi riporti indietro al bisogno.

Lascio che il sole ammorbidisca il colore nero delle palpebre serrate dall’interno e allo stesso tempo aspetto il progressivo tuffo nell’immaginazione.

Godo nel sentire le rughe delle palpebre distendersi e appesantirsi, volgendo verso il basso.

E mentre studio come non rendere banali i miei pensieri, sento il mio cervello avviarsi.    Singhiozza e rumoreggia come il generatore di un Porchettaro, accende la freccia verso la direzione opposta a quella di Wikipedia, pronto a vomitare qualcosa di non accademico.

C’è un colpo forte. Nulla è stato progressivo. 

Mi aspettavo un paesaggio bianco, in cui facessi fatica ad abituarmi alla luce bianca (neon), un luogo candido, tipo Stanza dello Spirito e del Tempo, con Silente (al posto di Popo) che indica la via.

Invece è tutto così strano.

L’unica cosa che riesco a distinguere abbastanza nettamente sono alcune parole che si ripetono di continuo, sfumando l’atmosfera di una cupidigia che prima mi era velata:

«Le campane non suonavano più e nessuno piangeva. L’unica cosa che si faceva aspettare era la morte, chi, ormai pazzo, guardando fisso nel vuoto, chi sgranando il rosario, altri abbandonandosi ai vizi peggiori. Molti dicevano: “È la fine del mondo!”…»

Non capivo da dove provenissero.

Sembrava che l’aria stessa ne fosse intrisa.

Quelle parole… quei versi… li avevo già sentiti tempo addietro.

Ricordavo perfettamente il punto in cui il libro di storia richiamava quella cantilena per esplicitare e evidenziare il periodo del Medioevo. Richiamava i tempi della peste. Ma come cazzo facevo a ricordarmelo? Mi sentivo Bradley Cooper in Limitless, ma senza NZT, al massimo avevo fatto un po’ di Aerosol per la tracheite. Pensai di dover fare l’Aerosol più spesso, e lo scrissi nei promemoria del telefono. Tornai alle parole in sottofondo.

Queste continuavano a giocherellare con il mio umore e alimentavano le domande sul perché la mia immaginazione non si fosse distaccata di molto dalla realtà e non mi avesse portato in un’isola paradisiaca come banalmente. Invece era come stesse sfuggendo al suo segreto professionale: stava cercando di trivellare la distanza dal passato, così da proiettarmelo vicino, per capire che non era molto differente dal presente.

Riuscivo a vedere chiaramente la peste che si muoveva come una potente mano nera (tipo quella di un Dissennatore) che avvolgeva mezzo mondo, eclissando la luce e stroncando la vita. Questa pandemia originatasi in Oriente giunse all’uomo tramite una fitta rete transizionale. E dall’uomo fu utilizzata, addirittura, contro l’uomo (l’immagine dei Tartari, che lanciavano i corpi senza vita degli appestati all’interno delle mura di Genova per facilitarne la conquista, fu come un filmato scadente aperto su Quicktime con il filtro seppia). Oltre a madre natura, per le sue funeste glaciazioni e qualche aiutino genetico alle pulci, un forte merito della sua rapida espansione apparteneva all’uomo, troppo impegnato nelle lotte di potere e ignorante di qualunque studio urbanistico che agevolasse l’igiene. Non aveva importanza se i ricordi erano quelli di Plutarco, di Tucidide o di Boccaccio… vedevo tutto. Tutti raccontavano di un miasma della natura contro l’uomo e dell’uomo contro l’uomo.

La sensazione di morire o uccidere per non morire si faceva spazio nel panico più totale. Che fosse peste o ebola l’uomo era pronto a uccidere pur di salvarsi.

Scommisi con me stesso che la congruenza del presente con il passato aveva a che fare con il potere dell’uomo di portare scompiglio e dichiarare l’inizio e la fine di processi a lui non appartenenti, o almeno non del tutto. Le urla assordanti del silenzio si facevano spazio tra le tentazioni di tornare indietro, di non voler più vedere e capire come l’uomo aveva decretato la fine del Paradiso Naturale.

L’uomo si era auto espulso dal Primo Paradiso. Si staccava dalla propria natura, non più vivendo, ma sopravvivendo di illusioni, ospitato nel Tartaro della terra, come parassita di un buco, da lui disegnato come il Secondo Paradiso. Buio, artificiale, soffocante. Senza speranza. Consumato dalle fatiche, l’essere umanoide, cambiò aspetto, evolvendo la sua opera Planetaria:

Il Terzo Paradiso. Qui integrava la vita artificiale e la sostituiva a quella Naturale.

L’evoluzione assunse i tratti del manga giapponese in cui la storia viaggiava al contrario, e si impose sull’uomo con un nuovo inizio in cui quest’ultimo non era più un protagonista cosciente della sua storia, ma Avatar incosciente e computerizzato, responsabile solo di un episodio perfetto, fine a se stesso.

L’uomo diventa un’opera d’arte che altalena tra la collaborazione e la competizione per raggiungere i propri obiettivi, sopprimendo le sue debolezze per essere più forte; disilluso, ma fiero di quel flusso di corruttibilità, pronto a eruttare con il profumo di gloria.

Ci fu un flash, forse un bug nel mio programma per lo streaming immaginativo, e poi c’era… Isildur, figlio di Elendil, ultimo dei Signori di Andunie, dell’isola di Numenor, che taglia la mano a L’Oscuro Signore Sauron. Ha l’opportunità di dare alla sua stirpe una dignità generazionale, sicuramente incisa nei secoli nel solo e unico gesto di liberarsi dell’unico Anello. Invece no: Isildur fa di testa sua, si acconcia come William Wallace, seleziona “Bittersweet Symphony” dall’IPod e spera in un finale alla The Mask. Ma muore poco dopo, rivelando che chiunque si avvicina al potere si disconnette dai bisogni della rete sociale, accende il Game Boy e ricerca norme a forma di pile ricaricabili affinché la batteria duri il più possibile.

Questo è quello che ha fatto l’uomo.

Ha lottato contro i suoi fantasmi e nella menzogna dei dogmi ha utilizzato il potere e l’ingenuità delle masse per raggiungere i propri obiettivi, primari e secondari. Ogni goccia di sangue e ogni lacrima versata, pubblicamente fotografate come necessarie alla pace e al bene, sono, in realtà, sacrifici fatti per il volere di una minuta oligarchia di pochi. Gli stessi che hanno trovato il modo di non combattere e inviare gli altri a farlo, hanno continuato a fingere di dover trovare un colpevole contro cui riversare le proprie paure. Gli stessi che hanno sempre agito per il bene, ma facendo del male, sempre tacendo. Finché non hanno trovato un posto sicuro, all’ombra dalle colpevolezze, forgiando davvero:

“Un Anello per domarci, Un Anello per trovarci, Un Anello per ghermirci e nel buio incatenarci”:

INTERNET.

L’impatto che la rete virtuale ha sulla civiltà è incredibile; e se mi volto non distinguo da quanto tempo hanno sostituito il carica batterie anche al cordone ombelicale. Il sistema sociale viene invertito e la realtà perde di vista la sua consistenza nelle richieste relative a un mondo illusorio e fittizio. In men che non si dica diventa più facile e auspicabile scaricare The Sims con tutte le espansioni, piuttosto che vivere una vita di ingiustizie in cui i soldi comprano anche il tempo.

Il collegamento virtuale nasce come sistema avanzato di spionaggio, anche se viene venduto come tecnologia comunicativa per incentivare la collaborazione tra i paesi. Nasce già rimpinzato di tutti i batteri che albergano la società odierna? Si e no, o meglio ogni periodo ha le sue malattie, le sue epidemie che infestano le architetture sociali dall’alto verso il basso. Il problema è che queste malattie hanno come piromani gli stessi vigili del fuoco chiamati per debellarle. E mentre la civiltà fa casino nei minuti di silenzio, resta in silenzio mentre…

il consumismo accresce sistemi inutilizzabili senza ADSL, a cui lega tariffe che schiavizzano i clienti;

la persuasione striscia nel bombardamento pubblicitario, e si nasconde, camaleontica, con un body painting uguale al suo sfondo, completamente bianco, assente di qualunque colore;

la propaganda vitupera la cultura e riscrive la storia con pop up che si aprono solo per spiegare le battaglie;

Il pilotaggio del sistema informatico viene dall’alto, e non è mai lineare. Si presenta come negligente, ma ti dà la stessa scelta di un’onda anomala, nata dall’accoppiamento tra il vento e la rotazione terrestre, che si muove veloce e ha come unico scopo quello di distruggere. Ma non per ritrovare l’equilibrio naturale (come vorrebbe Godzilla), ma solo per mantenere la civiltà passiva, stonarci per renderci meduse in balia della corrente.

Come risponde la civiltà?

Disperata e sola, non scappa, ma le va incontro e abbraccia l’onda.

L’effetto è devastante e il risultato è come un elettroshock fatto a una mente sana, costretta a vagare senza meta con la stessa certezza di Leonardo Di Caprio in Shutter Island. Le onde si susseguono, arrivano una dopo l’altra in momenti precisi. Un po’ come quando il surfista cade e, ogni volta che sta per riprendere aria, viene scagliato verso il fondo.

Le onde non lo uccidono,

(c’è aria sotto il mare virtuale)

però scalfiscono il surfista, fino a togliergli la speranza e la voglia di surfare… E piano piano la sua identità si limita al riflesso della sua immagine nelle onde.

Ecco che i Gormiti sostituiscono i Pokemon, Ben Affleck sostituisce Christian Bale nel ruolo di Batman e l’apparenza sostituisce la sostanza.

Le persone iniziano a predicare il faccismo

Secondo cui se parli con qualcuno attraente sei più propenso a una certa acquiescenza e perciò detto in modo potabile sei “incline a inclinare” la canna per buttare il baco di Cupido. La stessa “canna” con cui Pascal [non Pasqual] descrive l’uomo – l’uomo è una canna, ma una canna che pensa – perde il suo significato, anzi viene proprio fumato nel braciere della cultura, trasmesso giorno per giorno in prima serata in TV

… e smettono di andare di là del giardino per rimanere al di qua del computer.

Sopravviviamo, labili, flebili, esanimi, schiavi in un mondo Orwelliano che ci spinge a non pensare, ma a usare gli stereotipi. Ne risente l’amore, ne risente la vita…

Abbiamo dimenticato il sapore del pane, il rumore degli alberi, la delicatezza del vento… abbiamo dimenticato il nostro nome

Benvenuti nel mondo libero, sorretto dalla schiavitù.

Benvenuti nel mondo virtuale in cui la gioventù lega i suoi valori alla fama digitale.

Benvenuto ominide ancestrale, avvolto in bei vestiti, che passa il tempo a sputare in verticale verso chi è diverso, godendo di un lusso clericale.

Si perdono le gesta di Peter Parker, quelle di Asterix e Obelix, si combatte l’ebola con Actimel e si assottigliano le speranze di Essere per quello che facciamo piuttosto che per quello che Abbiamo. Viviamo i sentimenti come l’ultima scena del silenzio degl’innocenti e “glissiamo sui disinganni dell’amore e il sopore che scaturisce dai reiterati incontri quotidiani, ammettendo che i fasti priapei siano solo letteratura” (in parole povere l’amore diventa arbitrario e proliferano i primi appuntamenti e di primi appuntamenti si intende su Bazoocam).

Nessuno sogna più il bacio alla Spiderman, ma solo il bidet di Chanel,

Nessuno sogna più un tappeto volante, ma solo Channing Tatum in mutande,

Nessuno ricorda Joe Black, ma solo ma solo Jennifer Lawrence senza mutande.

Alzo la musica, credo in Schopenhauer, adesso sono “sano” cause it takes a fool to remain sane in this world covered up in shame.